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Se il neuromarketing orienta le strategie di rebranding

Se il neuromarketing orienta le strategie di rebranding

Il neuromarketing è usato per valutare l’efficacia dell’identità visiva anche nelle operazioni di rebranding. Il caso TIM a Certamente2016.

Non solo teoria, le due giornate di Certamente 2016 sono state un’ottima occasione per approfondire case history e best pratices in materia di applicazione aziendale del neuromarketing. Un esempio? Il contributo fondamentale che i principi del neuromarketing hanno avuto nel recente rebranding di TIM.

La scelta di un marchio unico – ha raccontato al pubblico di Certamente 2016 Gaia Spinella, responsabile in TIM di brand Analysis&Monitoring – non obbedisce, infatti, solo a cambiamenti strutturali del mercato e dell’ambiente competitivo di riferimento: i risultati del trade off Telecom vs TIM rispecchiano anche componenti soft tutt’altro che trascurabili. Semplicità, flessibilità, convergenza, dinamicità, capacità di essere connessi sempre, ovunque, da qualsiasi dispositivo: in altre parole, la necessità di un brand di vivere due vite separate online e offline, ma sempre on life.

E se quindi “un brand è anche e soprattutto una customer promise da mantenere” – sottolinea la responsabile di TIM – non si può non partire da come il marchio comunica se stesso, attraverso la creazione di segni e di un sistema distintivo che veicoli la sua identità e crei una customer experience coerente, quella che in gergo viene chiamata brand expression.

È proprio a questo punto che, nella grande operazione di rebranding del marchio, entrano in gioco le tecniche e le misurazioni del neuromarketing, che nel caso di TIM hanno significato, soprattutto, sottoporre la nuova visual identity a un serie di test biometrici.
Come ci ha raccontato Antonella Mandarano (Brand Analyst in Tim), l’uso dell’ eye tracking e di altri meccanismi di misurazioni dei biofeedback hanno permesso, cioè, di valutare la risposta del campione davanti all’identità visiva –  logo in primis – della “nuova” TIM.

Sotto attenta analisi, sono state l’attrattività del segno visivo nella sua capacità di fissare lo sguardo (valutabile tramite l’uso di heat map sul logo sia in stand alone che nel contesto dei touchpoint finali), il coinvolgimento a livello emotivo del consumatore e la riconoscibilità stessa del logo. “Il logo scelto ha attratto più fissazioni nella media dei touchpoint ed è risultato istintivamente più riconoscibile”, ha sottolineato Antonella Mandarano.

A tutto ciò comunque – come fanno notare le relatrici – andrebbero aggiunte numerose altre considerazioni sulla responsiveness, per esempio, o sulla percezione interna dello stesso apparato di brand expression. Il neuromarketing, insomma, è oggi indispensabile per “eliminare i bias che possono esserci nelle ricerche tradizionali” – ha sottolineato Gaia Spinella ai microfoni di Inside Marketing – ma i due approcci ancora non possono che convivere.

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