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Il nuovo algoritmo di Facebook, le pagine aziendali, i lettori e i giornali

Nuovo algoritmo di Facebook: come funziona e che conseguenze avrà

Che impatto avrà il nuovo algoritmo di Facebook sulle pagine aziendali? E come cambierà il modo di stare online dei giornali e il rapporto coi lettori?

Che rimettere al centro le persone sarebbe stata la mission di breve periodo di Menlo Park era apparso già chiaro quando, nella primavera del 2017, cominciò a circolare un manifesto di Facebook. L’annuncio, a gennaio 2018, di alcune modifiche nell’algoritmo e nella struttura generale del NewsFeed che dovrebbero premiare contenuti di familiari e amici e comunque pienamente inerenti agli interessi del singolo utente, così, è arrivato all’improvviso ma non troppo. Ciò non toglie che il nuovo algoritmo di Facebook abbia già destato (legittime) preoccupazioni e (non poche) critiche, soprattutto tra chi gestisce pagine aziendali o media. Com’è stato sottolineato a più voci, infatti, Zuckerberg starebbe tentando di cambiare direttamente e in corsa quelle che erano state fin qui le regole della viralità e della condivisione.

Come funzionerà il nuovo algoritmo che riporterà Facebook alle origini

In che modo nello specifico non è dato saperlo. Come sempre quando si parla di algoritmi che organizzano i contenuti sulle piattaforme digitali, infatti, è difficile indovinare con esattezza in cosa consisteranno novità e cambiamenti. Dal canto suo Zuckerberg si è limitato a spiegare in un post l’essenza del nuovo algoritmo di Facebook, che dovrebbe permettere di interagire appunto con «meno contenuti pubblici» e più contenuti che, invece, «incoraggino interazioni significative tra le persone». Le ragioni di una scelta simile sono spiegate nello stesso post: secondo delle ricerche, quando si usano i social network per restare in contatto con le persone care ci si sente meno soli e ciò, nel lungo periodo, è associato a un senso di benessere e di felicità. Se si considera che le persone sono il vero capitale di Facebook è semplice comprendere, allora, lo sforzo costantemente fatto dalla piattaforma per rendere quanto più piacevole possibile la permanenza su Facebook. C’è un affollamento di contenuti di poco valore, qualche volta persino indesiderati per gli utenti, a cui si accenna ancora nel post di Zuckerberg, e che chi abbia una minima familiarità con ambienti come questi non può non notare. «Le persone si stanno spostando, per esempio, verso le chat private o di gruppo, preferendole a forme di interazione più pubbliche con gli altri utenti», racconta Andrea Albanese – organizzatore del social media marketing Day Italia –, proprio a tal proposito in un’intervista ai nostri microfoni. Si tratta di constatare – continua l’esperto – come anche l’utente più comune sia ben consapevole ormai che «Facebook è un ambiente complesso» in cui, nonostante esistano strumenti pensati ad hoc per gli scambi e le interconnessioni tra utenti (i like, il tasto share, ecc.), le dinamiche utente-utente o utente-pagina sono tutt’altro che di facile comprensione.

In qualche modo, insomma, il nuovo algoritmo di Facebook dovrebbe rappresentare un ritorno al social della prima ora, dove tutto era più «semplice, genuino, senza fronzoli», aggiunge ancora Albanese, secondo il quale ciò potrebbe tradursi, per esempio, in un’operazione di look and feel che renda, anche visivamente, di più facile lettura il NewsFeed e che migliori, quindi, a partire dal design l’esperienza utente. Molto più realisticamente, è probabile che il nuovo algoritmo agisca solo sulla frequenza con cui vengono visualizzati i post delle aziende: se prima si vedeva un post di una pagina ogni dieci post degli amici, ora se ne potrebbe vedere uno ogni venti, solo per fare un esempio.

Da questa prospettiva, allora, la rivoluzione di casa Facebook sembra realmente pensata per il bene degli utenti («vogliamo essere sicuri che il tempo speso su Facebook sia tempo ben speso», scrive del resto Zuckerberg). Utenti che, in più di un’occasione, hanno dimostrato per esempio di fidarsi di più di notizie e aggiornamenti condivisi dai propri amici e dalle proprie cerchie: in quest’ottica, dare precedenza ai post degli amici potrebbe persino allungare il tempo di permanenza degli utenti, scongiurando il rischio più volte paventato di una fuga verso altre piattaforme.

Più in generale «tutti noi vorremmo vedere nel nostro stream notizie più interessanti e utili – ha sottolineato infatti Alessandro Mazzù, consulente di web marketing, in un’intervista ai nostri microfoni – e così credo sinceramente che cambiamenti come questi siano utilissimi per rendere sempre meno visibili i post di pagine che si limitano a pubblicare ogni giorno, anche più volte al giorno, post in cui vogliono solo vendere i loro prodotti e servizi». Quello a cui tanti social media manager sono chiamati, insomma, è un radicale cambio di strategia: si dovranno «creare contenuti che le persone vogliono effettivamente leggere, contenuti in grado di apportare un vantaggio, di risolvere un problema e di soddisfare un’esigenza – continua l’esperto – oppure l’alternativa è quella di vedere la portata organica della pagina sempre più in discesa verso lo zero».

Meno visite organiche, più engagement in target

La reach organica delle pagine Facebook, del resto, è da sempre uno dei crucci di chi opera nel settore. Già qualche mese fa da casa Zuckerberg sembravano aver attentato a questa quando avevano spostato i post delle pagine e in una sezione ad hoc, il Feed Esplora, lasciando nella tradizionale home solo post degli amici e contenuti sponsorizzati. Inutile sottolineare come la maggior parte delle pagine, già allora, avevano visto crollare le visualizzazioni organiche. In realtà gli effetti del Feed Esplora furono molto più complessi e di più complessa interpretazione, come dimostra un case study slovacco. Quando a ottobre 2017 venne introdotta questa nuova feature, chiunque nel Paese amministrasse la pagina Facebook di un giornale o qualsiasi altro medium vide crollare il traffico organico, le visualizzazioni per singolo post, le interazioni. Se si guarda a metriche più robuste (come il Reach Engagement Rate, che misura quante persone che sono state raggiunte da un contenuto hanno anche effettivamente interagito con esso, ndr) ci si può accorgere, però, che le performance risultano addirittura migliorate a partire da quel momento e per quasi tutte le pagine con una chiara Facebook policy. Tradotto potrebbe significare che i post delle pagine sono stati condivisi in un modo più targettizzato, perché raggiungessero con più facilità il core della propria fanbase, quello disposto a interagire di più e meglio.

Il nuovo algoritmo di Facebook potrebbe avere, grossomodo, lo stesso effetto. Il grande errore che aziende e soggetti business hanno fatto fin qui è stato, insomma, credere che Facebook fosse uno strumento gratuito. Oggi quello di Zuckerberg può essere considerato, infatti, insieme a YouTube uno dei più importanti player per quanto riguarda la digital advertising. E soprattutto, come ribadisce in un’intervista ai nostri microfoni la digital analyst Valentina Vellucci, «Facebook non è una ONLUS. Il motivo per cui le aziende investono su Facebook sono le persone che consumano il loro tempo lì: se il meccanismo che intrattiene il pubblico si rompe, Facebook per sopravvivere è costretto ad apportare dei cambiamenti per puro spirito di auto-conservazione, anche se ciò vuol dire, per assurdo, alzare la posta in gioco per le aziende». In altre parole, ci si dovrebbe mettere in testa che «gestire una pagina senza prevedere un cospicuo investimento in adv è un approccio che non porterà a nulla di buono. Se è vero che le modifiche all’algoritmo vanno nella direzione di premiare i contenuti di qualità, è ancora più vero che Facebook vuole spingere le aziende a investire nella pubblicità. Non è sbagliato, anzi: Facebook è un’azienda e come tale vuole incrementare il suo fatturato», spiega ancora Alessandro Mazzù.

Cosa devono fare allora le aziende per piegare a loro favore gli effetti di questo nuovo famigerato algoritmo Facebook?

Il mio consiglio è di rivolgersi solo a veri professionisti o di formare adeguatamente le loro risorse interne e di comprendere quanto sia fondamentale dedicare un vero budget alla gestione della pagina. Altrimenti l’utilizzo di Facebook sarà solo un gioco che non solo non poterà nessun risultato ma, anzi, danneggerà l’immagine dell’azienda stessa.

Per dirlo ancora con le parole di Valentina Vellucci: «le aziende devono capire che fare social media marketing vuol dire investire in content marketing e advertising e che i budget di advertising non sono un capriccio di agenzie e consulenti: quei soldi – sembra scontato dirlo, ma è sempre meglio specificarlo –sono investimenti che incassa Facebook. Non si tratta di un aumento di compenso per il consulente: si tratta di pagare il miglior spazio pubblicitario possibile per il proprio marchio presso il miglior pubblico possibile. Una buona strategia di investimento parte da questo: fare marketing su Facebook non è una spesa, ma un investimento che prevede l’acquisto di spazi pubblicitari. Tali spazi sono utili per raggiungere gli obiettivi concordati. Risparmiare sul budget vuol dire “scegliere consapevolmente che volete ottenere meno”. E come si può pensare di portare a termine dei reali obiettivi di marketing investendo ogni tanto 10 euro su qualche post Facebook? La strategia migliore di investimento dovrebbe essere, invece, quella che prevede un continuo ma non assordante presidio di Facebook e delle altre leve di marketing. Continuità, coerenza e concretezza della value proposition: sono queste, secondo la mia esperienza, le “3 C” del presidio digital in ottica di marketing differenziale, che possono realmente sostenere una efficace strategia di social media marketing. Meno contenuto, maggiormente legato alla quotidianità dell’utente, meno aggettivi, più esperienze, meno effetto wow, più focus sulle buyer personas di reale interesse. Per assurdo, per le pagine aziendali in grado di capire queste “nuove” regole del gioco non prevedo una esplosione di costi, ma forse degli inaspettati abbassamenti (lievi) dei costi delle social action: in un NewsFeed privo di adv non vincerà il semplicemente il miglior offerente, ma l’offerente in grado di fare l’offerta migliore al pubblico giusto».

 

L’alternativa – o, meglio, un’azione da intraprendere contestualmente – potrebbe essere puntare di più e in modo migliore sulle strategie seo che dirigano traffico direttamente sul sito aziendale. Chi abbia una certa familiarità con gli ambienti digitali sa bene, infatti, che allo stato attuale, nella maggior parte dei casi, soprattutto per i siti d’informazione per esempio, il traffico in entrata è quasi sempre un traffico che parte dai social. Con l’introduzione del nuovo algoritmo di Facebook, così, «a livello di ricadute sulla SEO potremmo vedere scossoni proprio rispetto al traffico di grandi magazine, giornali e di alcuni blog collegati a pagine Facebook di successo», ci spiega interpellato sull’argomento Francesco Margherita, consulente e formatore SEO. In questo senso «spesso si è notato che Google considera come segnali di rilevanza il (forte) riscontro derivante a più livelli da una condivisione social che ha saputo colpire nel segno, come dimostra anche il mio SEO test sul “coprywater” (un post sulla professione del copywriter con un evidente refuso nel titolo che per semplificare ha scalato la serp proprio grazie al buzz sui social, ndr). Un contenuto virale, insomma, rimane un contenuto virale e questa modifica al core di Facebook è da considerare come uno sprone a far circolare contenuti che le persone abbiano realmente voglia di condividere. Google, dal canto suo, continuerà a premiare i contenuti con caratteristiche tali da generare interesse reale nelle persone: questo vuol dire che è finalmente arrivato il momento in cui chi ha davvero qualcosa di sensato da dire, potrà farlo senza essere travolto dal rumore di fondo», continua l’esperto.

Il nuovo algoritmo di Facebook pone davvero un problema di pluralismo?

Meno semplice è valutare l’impatto che la famigerata modifica nell’algoritmo di Facebook potrà avere sul pluralismo e sul modo di fare giornalismo.

Nel primo caso andrebbe considerato che, per un numero sempre crescente di utenti, i social network sono la principale, se non l’unica, fonte d’informazione.

Essere esposti a e interagire con i soli post degli amici, così, potrebbe aumentare il tanto ipotizzato rischio di omofilia: sui social esisterebbero delle filter bubble impermeabili a opinioni e punti di vista diversi da quelli di chi ne fa parte e, se davvero un algoritmo impedirà agli utenti di entrare in contatto anche casualmente con contenuti che si discostano dai propri gusti, è facile immaginare uno scenario di polarizzazione estrema delle posizioni. Facebook potrebbe non essere più, insomma, uno strumento di democrazia e pluralismo, ammesso che lo sia mai stato.

L’unico rimedio in questo senso, come scrive Bruno Mastroianni in una riflessione sugli effetti dell’aggiornamento dell’algoritmo di Facebook su DataMediaHub, è per gli utenti curare bene tanto le proprie amicizie «che non siano solo di cerchie ristrette di affini», quanto la propria «biblioteca di fonti online attendibili da consultare regolarmente al di fuori di Facebook».

Cosa il nuovo algoritmo dice del rapporto di Facebook con l’informazione

Il nuovo algoritmo di Facebook, però, potrebbe rappresentare un problema soprattutto per giornali e altri soggetti media che, negli ultimi anni, hanno organizzato la propria strategia editoriale intorno alle attività social. Più volte da casa Zuckerberg hanno annunciato nuovi strumenti, nuovi tool, nuove iniziative – dagli Instant Articles ai video native – che avrebbero dovuto favorire gli editori. C’è chi ha interpretato, così, l’ultima mossa di Facebook come una sorta di passo indietro rispetto all’impegno preso fin qua nei confronti dell’ecosistema dell’informazione. Tanto più che, solo qualche ora dopo, un altro annuncio di Zuckerberg sembrava delegare la lotta alle fake news ai singoli utenti chiamati a dare un rating di credibilità alle singole testate. Da Menlo Park, del resto, hanno sempre stentato a riconoscersi come una vera e propria media company, rendendo di fatto confusi e labili i confini per quanto riguarda le responsabilità sui contenuti, per esempio.

Al di là del fatto che ci sia qualcuno che sostenga come il nuovo algoritmo di Facebook sia figlio di errori ontologici – un prodotto, un contenuto media potrebbe non essere un «public content» qualunque – esso rappresenta, comunque, la definitiva fine dell’idillio tra i social network e i mezzi d’informazione, come ha scritto Franklin Foer su The Atlantic (in un pezzo tradotto poi per Internazionale, ndr). Una fine dell’idillio, però, che potrebbe rappresentare anche un vantaggio reale per chi voglia fare, oggi, seriamente informazione: «invece di scagliarsi nuovamente contro Facebook – scrive, infatti, l’analista – i mezzi d’informazione dovrebbero ringraziarlo. Facebook gli ha appena fatto un enorme favore. Li ha obbligati ad accettare il fatto che la pubblicità e il traffico su Internet non sosterranno mai il giornalismo, soprattutto se quel traffico viene da aziende che vogliono tenere per sé tutti i soldi che arrivano dalla pubblicità. I giornali non possono cambiare questa realtà, ma non vogliono sostenere gli sforzi e il dispiacere che derivano da questa transizione. E faticano a rinunciare all’idea di poter sfruttare Facebook per ottenere più visibilità. Adesso Zuckerberg ha stravolto anche questo, liberando i mezzi d’informazione da un’illusione a cui avrebbero dovuto rinunciare molto tempo fa». A fargli eco è Jeff Jarvis del Tow-Knight Center for Entrepreneurial Journalism che, se da un lato si dice preoccupato degli effetti del nuovo algoritmo sui giornali e chi fa informazione online, dall’altro si dice convinto ora più che mai che la funzione del giornalismo rimanga quella di «spingere le community verso conversazioni civili, informate, produttive, riducendo la polarizzazione e costruendo fiducia grazie alla possibilità di aiutare i cittadini a trovare terreno comune nei fatti e nella loro comprensione». Non di sola monetizzazione, insomma, è fatta la presenza dei news brand su Facebook ma, ancora una volta, anche di rapporti positivi e costruttivi con la propria community di lettori: gestire meglio e far sentire la propria presenza nei commenti, a patto di non cominciare a fare commentbait, potrebbe essere così per esempio una buona mossa da parte di chi gestisce la pagina di giornali e co.

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