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Pagine fasciste su Facebook, contrordine? Il social ora le rimuove in massa

Pagine fasciste su facebook: come mai continuano ad essercene così tante?

Non tutte le pagine fasciste su Facebook sono penalmente perseguibili e la policy della piattaforma non sembra imporne la rimozione, ma qualcosa è cambiato

Non è notizia recente quella dell’esistenza di un nutritissimo numero di pagine fasciste su Facebook. Già nel 2017 in un’intervista a Radio Radicale in occasione dell’International Fact-Checking Day la Presidente uscente della Camera Laura Boldrini denunciava la presenza sul social network di centinaia di pagine attraverso cui si veicolano contenuti di stampo fascista e una ricerca pubblicata nel dicembre 2016 da Patria Indipendente, il periodico dell’Anpi, stimava in circa 2700 il numero di pagine ascrivibili all’area ideologica dell’estrema destra, di cui circa 300 propriamente connotate per l’esaltazione di idee, simboli e obiettivi fascisti. Eppure, negli ultimi tempi qualcosa è cambiato ma, si badi bene, se ciò rappresenta sicuramente un dato positivo, gli interrogativi, comunque, non mancano.

Essere fascisti è (di per sé) reato?

Certo, le statistiche del 2016 non hanno mancato di suscitare comprensibile e condivisibile sdegno tra tutti coloro che condividono i valori democratici, solidaristici ed egualitari su cui si fonda la Carta costituzionale e, dunque, ci si è da tempo chiesti per quale ragione Facebook non provvedesse ad un serio repulisti di questi contenuti ovvero, in difetto, perché non fosse obbligata dagli organi statuali. Prima di analizzare quello che è avvenuto tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018, comunque, è bene chiarire alcuni aspetti: il convincimento che tali pagine, propagandando valori antidemocratici, possano o debbano essere rimosse, infatti, spesso sconta degli errori di fondo.

Anzitutto, quasi unanimemente si afferma che le pagine in questione andrebbero rimosse in quanto i contenuti che esse veicolano costituirebbero reato: del resto, anche nell’intervista alla Presidente della Camera di cui si è detto, il “titolo” in forza del quale invocare la rimozione delle pagine fasciste su Facebook si individuava proprio nella loro contrarietà alla legge. Ebbene, è senz’altro vero che il nostro ordinamento prevede una specifica ipotesi delittuosa per i fatti di apologia del fascismo, incriminata dalla Legge 20 giugno 1952, n. 645, recante “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”, ovverosia la cd. Legge Scelba. In particolare l’articolo 4 prevede la pena della reclusione da sei mesi a due anni (oltre la pena pecuniaria) per chiunque «pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni» oltre quella pecuniaria, per il vero piuttosto blanda. Tutto ciò basta però per farci affermare che i contenuti veicolati dalle pagine fasciste su Facebook integrino il reato in questione? In realtà, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, sicuramente no.

Questa apparente contraddizione in termini si spiega tenendo conto che la fattispecie in predicato si colloca nel terreno – estremamente accidentato – dei reati d’opinione. Tali reati, infatti, sembrano entrare in frizione con gli elementi strutturali di un sistema penale costituzionalmente orientato, perché di essi non è agevole individuare il profilo dell’offensività. Per comprendere questa affermazione, è bene precisare come – perché una certa condotta possa essere incriminata – è necessario che essa offenda o quantomeno esponga a pericolo un bene giuridico, ovverosia un interesse ritenuto meritevole di protezione dall’ordinamento e – segnatamente – della massima protezione possibile, ovverosia quella penale.

Ciò difficilmente si verifica con riferimento ai reati di apologia (ma lo stesso discorso vale anche per quelli di istigazione), giacché la mera espressione di opinioni, convincimenti, idee o meri propositi in sé considerata non è idonea a ledere (né a mettere a repentaglio) alcun bene giuridico o, meglio, non è idonea a compromettere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. Tale bene, infatti, nei reati di opinione è usualmente l’ordine pubblico e, nel caso in questione, l’ordine pubblico democratico-costituzionale. Non a caso, del resto, la XII Disposizione Transitoria della Costituzione (di cui la Legge Scelba è atto attuativo) proibisce la «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» e la L. 645/52 all’art. 1 reca proprio la definizione “operativa” del concetto di riorganizzazione, affermando che essa sussiste allorché «una associazione o un movimento persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politico o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista».

Ora, è di tutta evidenza che se la divulgazione di idee – per quanto in stridente contrasto con i valori repubblicani – rimane allo stadio dell’opinione o del mero proponimento privo di atti di organizzazione/esecuzione, essa non può ragionevolmente essere considerata in grado di offendere il bene giuridico protetto, perché attraverso le sole parole non si può sovvertire l’ordine costituzionale. Se così è, allora, non si può punire con il braccio armato del magistero penale le esternazioni veicolate tramite pagine fasciste su Facebook, per quanto riprovevoli, giacché quel che verrebbe a difettare è l’offensività della condotta e si finirebbe per reprimere mere opinioni, per quanto antidemocratiche.

Del resto un’altra figura di apologia, contenuta nel codice penale e che puniva la «propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale» (art. 272) è stata abrogata dalla L. 85/2006 che ha ridisegnato il sistema dei reati d’opinione, cercando di renderlo più compatibile con il pluralismo ideologico proprio della Costituzione ed il principio di necessaria offensività.

Tornando all’apologia di fascismo, allora, si tratta forse di un reato impossibile da commettere e, quindi, da perseguire? Non proprio. Come oramai la giurisprudenza ha concluso per tutte le tipologie di reati d’opinione, affinché venga in rilievo un fatto punibile nel rispetto del principio di necessaria offensività occorre che le condotte poste in essere abbiano un effetto attivizzante. Occorre, in altri termini, che per le particolari modalità con cui sono realizzate, per la pregnanza, l’insistenza o la persuasività che le accompagnano esse possano risultare idonee a provocare il sollevamento di altri individui contro le istituzioni della Repubblica: solo in questo caso, allora, ben si potrebbe affermare che l’ordine costituzionale è esposto a pericolo, perché di fronte ad esso si concretizza la minaccia della riorganizzazione del partito fascista.Se così stanno le cose, allora, è chiaro che non ogni contenuto veicolato dalle pagine fasciste su Facebook di per sé costituisce reato, occorrendo verificare di volta in volta se le singole condotte (nonché ovviamente il loro insieme) possano effettivamente generare un pericolo di recrudescenza del PNF.

Ciò ovviamente ha riflessi estremamente importanti rispetto ai rimedi attuabili a fronte di pubblicazioni fasciste, giacché se il fatto non costituisce reato sono irrimediabilmente fuori gioco tutti gli strumenti di matrice penalistica.

Pagine fasciste su Facebook e sequestro preventivo

Per l’ipotesi in cui, invece, sia ravvisabile un fatto penalmente rilevante, è indiscusso che l’ordinamento prevede degli istituti che consentono non solo di punire i responsabili, ma anche di rimuovere i contenuti ed impedire la pubblicazione di nuovi di analogo tenore.

Per evitare fraintendimenti, però, è bene operare una precisazione: anche laddove non è ravvisabile il delitto di apologia di fascismo non è affatto detto che la condotta sia penalmente irrilevante, potendo integrare altre fattispecie, tra cui (come di frequente avviene) il delitto di diffamazione in danno di soggetti riconducibili ad opposte fazioni. In particolare, come ha precisato a più riprese la Cassazione, quella commessa tramite social media è una diffamazione aggravata dall’utilizzo di un “mezzo di pubblicità“, giacché «l’inserimento della frase che si assume diffamatoria la rende accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network» (Cass. 16712/14 in tema di pubblicazione su bacheca), con la conseguenza che le pene detentive previste sono addirittura più alte di quelle dell’apologia (da sei mesi a tre anni).

A parte il dato sanzionatorio, il profilo forse di maggior interesse è quello legato alla rimozione dei contenuti pubblicati da pagine fasciste su Facebook. Ebbene, in proposito va detto che lo strumento a disposizione del Magistrato del Pubblico Ministero è quello del sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.). Tale misura cautelare reale è disposta dal Giudice (su richiesta del PM) allorché sussista il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati. Nel “fuoco” del sequestro preventivo ricadono oramai senza dubbio le pagine web attraverso cui sono pubblicati contenuti illeciti (Cass. pen., SS.UU. 31022 del 2015).

Merita un cenno, quindi, l’esatta individuazione della posizione di Facebook nell’ambito delle vicende criminose perpetrate mediante le pagine del suo network.

Va premesso che l’applicazione del sequestro a casi in cui la pagina di un social network è utilizzata per scopi criminosi si giustifica giacché la libera accessibilità della stessa da parte del soggetto imputato di essere l’autore delle pubblicazioni illecite consente per un verso che le stesse siano eventualmente ancora rese disponibili a terzi (aggravando le conseguenze della lesione del bene protetto); per altro verso rende possibile la pubblicazione di ulteriori contenuti di egual natura (agevolando quindi la commissione di ulteriori reati).

Tuttavia, in un caso di recente sottoposto al Tribunale del Riesame di Reggio Emilia, Facebook Ireland Ltd. aveva impugnato il sequestro disposto, lamentando, in quanto hosting provider del social network, di essere il vero “titolare” – estraneo ai fatti – degli spazi virtuali mediante i quali era stato commesso il reato. Per queste ragioni ne invocava la “restituzione”: si argomentava, infatti, che il sequestro dovesse essere volto ad inibire solo ed esclusivamente i post con contenuti illeciti, rivolgendolo ai soggetti che li hanno postati, mentre l’oscuramento nel complesso dell’intera pagina e del gruppo sarebbe da considerare quale ingiustificata compressione della libertà di iniziativa economica.

Di diverso avviso, invece, il Tribunale. Secondo quest’ultimo, infatti, «Facebook Ireland pur essendo titolare del servizio e gestore di tale servizio in favore dei destinatari del servizio stesso e pur essendo titolare di diritti connessi a tale posizione, non può essere considerata, nell’ipotesi di sequestro preventivo di pagina o gruppo Facebook, la persona alla quale le “cose sono state sequestrate”, posto che tale condizione si realizza solo nell’ipotesi in cui la persona abbia una effettiva disponibilità di ciò che ha costituito oggetto del vincolo reale, che si concretizza – nel caso di sequestro di pagine web o siti internet – nella possibilità di gestire in concreto quella pagina o quel sito, avendone il potere di gestione e di amministrazione». Dunque è il gestore della pagina o del sito che viene privato della disponibilità del luogo virtuale mediante il sequestro, non già l’hosting provider, con la conseguenza che solo il primo può utilmente richiederne la restituzione.

Si era dubitato, poi, che mediante il sequestro preventivo di cui all’art. 321 c.p.p. potesse essere anche imposto un ordine al provider, affinché questi adotti particolari accorgimenti tecnici (filtraggio a livello di DNS o di IP) per impedire l’accesso ad una determinata pagina web. Questo perché, si diceva, il sequestro ha ad oggetto solamente il vincolo di indisponibilità apposto ad un bene, non anche un comando inibitorio. La Cassazione (29/09/2009, n. 49437), pur ammettendo che effettivamente ai sensi dell’art. 321 c.p.p. il Giudice non può imporre un facere al prestatore di servizi Internet, ha affermato che ciò è comunque possibile in forza delle previsioni del D. Lgs. 70/2003 in materia di commercio elettronico che, nell’escludere un obbligo di vigilanza generalizzato, prevede comunque che l’autorità giudiziaria possa richiedere al prestatore di tali servizi di impedire l’accesso al contenuto illecito (art. 17, comma 3).

Se, dunque, esistono appositi strumenti che consentono il sequestro delle pagine web a contenuto illecito mediante il cd. oscuramento, come mai – almeno fino a qualche tempo fa – era così nutrita la compagine delle pagine fasciste su Facebook perfettamente accessibili? Anzitutto perché, come si è detto, il fatto che i contenuti di tali pagine si risolvano in esaltazioni di ideologie dittatoriali non basta per considerarle delittuose. In secondo luogo, perché esistono degli ostacoli di carattere spaziale/materiale all’esecuzione dei provvedimenti di sequestro di cui si è detto.

In particolare, è noto che server che ospitano Facebook sono collocati negli USA (precisamente in California), per cui – ove il social non ottemperi spontaneamente (usualmente mediante l’intermediazione della sua divisione europea) – l’esecuzione della misura cautelare richiede l’avvio di una rogatoria internazionale, per far sì che all’attività richiesta dalla Magistratura italiana provvedano gli organi dello Stato richiesto. Quasi superfluo, tuttavia, è evidenziare come tale procedura sia particolarmente complessa e richieda, quindi, tempi molto lunghi occorrendo, ad esempio, che la richiesta venga inoltrata dal Ministero della Giustizia italiano all’Attorney General USA.

Non dovrebbe costituire circostanza ostativa, invece, nel caso dell’apologia di fascismo, il fatto che una tale fattispecie di reato non sia contemplata dagli ordinamenti penali statunitensi (che accolgono in maniera ancor più radicale il principio della libertà di espressione), giacché, in forza del trattato di cooperazione giudiziaria tra Italia e USA del 1982, l’assistenza è dovuta anche nel caso in cui il fatto per il quale sia procede non sia previsto come reato nello stato richiesto.

E se manca il reato?

Per le ipotesi in cui, viceversa, non sia possibile configurare alcuna condotta penalmente rilevante, il discorso relativo alla rimozione delle pagine fasciste su Facebook diviene molto più complicato. Qui, infatti, non esiste più alcun obbligo normativo che imponga a Facebook di provvedere in tal senso e la partita si sposta tutta sulle condizioni di utilizzo della piattaforma social.

In effetti, ai sensi dell’art. 3 delle condizioni di utilizzo è proibito «denigrare, intimidire o infastidire altri utenti» (co. VI), «pubblicare contenuti minatori, pornografici, con incitazioni all’odio o alla violenza o con immagini di nudo o di violenza esplicita o gratuita» (co. VII) nonché «usare Facebook per scopi illegali, ingannevoli, malevoli o discriminatori».

Dunque è chiaro che i contenuti veicolati dalle pagine fasciste su Facebook saranno in contrasto con la policy del social network tutte le volte in cui incitino all’odio o alla violenza o ancora perseguano uno scopo discriminatorio o diffamatorio. In queste ipotesi, la piattaforma potrebbe intervenire per la rimozione. Ciò è specificato anche negli “standard della comunità” ove, nella sezione “invito ad un comportamento rispettoso” si legge: «Facebook rimuove i contenuti che incitano all’odio, compresi quelli che attaccano direttamente una persona o un gruppo di persone […] ci impegniamo al massimo per rimuovere i contenuti di incitazione all’odio, ma mettiamo a disposizione anche degli strumenti per evitare la visualizzazione di contenuti offensivi o di cattivo gusto».

Tuttavia, per quanto ciò possa apparire per certi versi paradossale, l’apologia tout court, ovverosia quella scevra da incitazioni all’odio o alla violenza, non è in contrasto con la policy della piattaforma, come ha affermato a La Stampa Laura Bononcini, head of policy di Facebook Italia. Questo perché le regole della piattaforma sono state pensate per una comunità di centinaia di milioni di persone provenienti da Paesi diversi con regole, sicché Facebook non si vuole impegnare in problematici distinguo in base alle diverse storie e culture di ciascuno Stato, limitandosi quindi alla rimozione solo nei casi configgenti in via diretta con la propria policy ovvero laddove sia l’Autorità Giudiziaria ad imporglielo. Ecco spiegato, dunque, perché si è assistito a quella esponenziale proliferazione di pagine fasciste (o, più in generale, estremiste) su Facebook di cui si diceva in apertura.

La svolta del 2017 e la bonifica pre-elettorale

Se le cose stanno come fin qui detto e come confermato direttamente dai dirigenti della piattaforma social, assume connotati davvero interessanti quel che è avvenuto a partire da settembre 2017. Come si ricava ancora una volta da un report pubblicato da Patria Indipendente, infatti, negli ultimi sei mesi si è assistito ad una massiccia operazione di rimozione delle pagine fasciste su Facebook, con un picco particolarmente accentuato di chiusure nel periodo antecedente alle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Significativamente, infatti, si fa rilevare che «se si somma il numero di “mi piace” delle pagine apologetiche chiuse nel solo mese di febbraio si ottiene una cifra che rasenta 850.000». Date le proporzioni veramente massicce dell’operazione di “bonifica”, sembra difficile pensare che si tratti di attività realizzate dal social network su impulso dell’Autorità Giudiziaria (giacché si dovrebbe immaginare almeno un numero di procedimenti penali eguale a quello delle pagine chiuse) e quindi è più che ragionevole concludere che si tratta di una decisione ascrivibile proprio agli organi direttivi di Facebook.

A questo punto, però, sorgono degli interessanti interrogativi anche sul piano giuridico: se non più tardi di un anno fa una voce ufficiale della piattaforma social chiariva con espressioni inequivocabili che, in ultima istanza, l’apologia del fascismo non contrastava con la loro policy; come si spiega, ora, questo cambio di rotta? A quanto consta, infatti, i termini di utilizzo della piattaforma non sono mutati. E allora sono forse stati reinterpretati in maniera più rigorosa i concetti di «incitazioni all’odio o alla violenza» in modo tale da farvi ricadere anche i contenuti fascisti o estremistiSi è forse ritenuto che una pagina fascista (o estremista) sia in re ipsa veicolo di contenuti violenti e/o razzisti? Il dato veramente significativo è che non è dato saperlo. Beninteso, quale che sia la risposta, si tratta di una decisione assolutamente condivisibile dal punto di vista della giustizia sostanziale, ma il punto è un altro, ovverosia l’assoluta asimmetria tra le posizioni giuridiche dei soggetti coinvolti.

La vicenda in parola, infatti, mette bene in evidenza come – in ultima analisi – gli utenti della piattaforma siano soggetti in potestate, ovverosia sottoposti al volere (e alle decisioni) altrui. Ora, se pure è vero che allorquando ci si iscrive al social si accettano determinate condizioni di utilizzo e, quindi, per l’ipotesi di violazione, si accetta pure che Facebook provveda alla rimozione dei contenuti “illeciti”, il discorso è che, in fin dei conti, stabilire cosa è lecito e cosa non lo è risulta decisione rimessa all’imperscrutabile volere di un ancor più imperscrutabile “moderatore”. In altri termini, allorquando l’una parte si riserva nei confronti dell’altra l’esercizio di penetranti poteri diautotutela” (come quella che si risolve nell’oscuramento della pagina o dei post), sarebbe ben opportuno che fossero chiariti in maniera sufficientemente precisa e dettagliata gli ambiti di esercizio di tali facoltà e, specularmente, l’ambito di liceità delle condotte che la controparte (nel nostro caso, l’utente Facebook) può tenere.

L’affaire “pagine fasciste su Facebook” invece dimostra che tali confini sono assolutamente labili, giacché quel che oggi può essere considerato conforme alla policy, domani potrebbe non esserlo più.

Due, quindi, i punti nodali di un discorso più ampio, che trascende la decisione – si ripete, condivisibilissima – relativa alle pagine fasciste su Facebook:

  • esiste una autorità sul web, che però non vuole apparire tale cercando di conservare invece le vesti di un neutrale moderatore;
  • proprio perché si sforza di non apparire tale, le logiche e i processi decisionali di tale autorità non sono chiari.

Ciò rappresenta forse la più marcata differenza tra Facebook ed il potere legale (ovverosia quello statuale) che, per legittimarsi ed essere riconosciuto dai consociati, nonché per ovvie esigenze di garanzia, ha elaborato dei meccanismi di pubblicità e controllo dei circuiti decisionali. Si pensi, ad esempio, alle decisioni giudiziarie che devono sempre essere motivate (art. 111 Cost.) e sono sempre soggette (almeno) al controllo di legittimità della Corte di Cassazione.

E allora, se sul web questo potere esiste e viene esercitato in forme “grigie” ovverosia tramite valutazioni e azioni che non sono chiarite al pubblico della community, riemerge l’antico e mai risolto interrogativo di Giovenale: quis custodiet ipsos custodes?

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