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Perché postiamo sui social?

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Una ricerca ha provato a spiegare come utenti di diversa nazionalità utilizzino le nuove piattaforme online e perché postiamo sui social.

Dimenticate le accuse ‘apocalittiche’ normalmente rivolte ai social (ad esempio che ci stanno rendendo individualisti e narcisisti, che banalizzano le relazioni, limitano la concentrazione e ci rendono prigionieri di una sorta di Grande Fratello che osserva l’intero scorrere delle nostre vite).  Dimenticate persino la definizione stessa di social media : Facebook, Twitter e simili non sono che piattaforme, mentre i veri social media sono «i contenuti che abbiamo prodotto e le conseguenze sulla nostra vita». Parola dei nove antropologi che hanno vissuto per quindici mesi in diverse comunità in giro per il mondo (dalla Cina alla Turchia, passando per Cile, Brasile, India e Italia Meridionale) interrogandosi sul ruolo di questi nuovi mezzi di comunicazione nella vita quotidiana della gente, soffermandosi sul perché postiamo sui social.

Perché postiamo sui social?

Il risultato è Why We Post?”, una ricerca della London’s Global University, con taglio marcatamente antropologico e interessante anche nelle forme: niente report ufficiali, solo un sito su cui vengono rivelati gradualmente i maggiori risultati con l’aiuto di materiale audiovisivo, eBook e un MOOC sui social media fruibile gratuitamente

La trovata di base è che «meme e selfie siano anche strumenti per instaurare o rompere relazioni, per creare uguaglianza o rafforzare la disuguaglianza»: a dispetto delle premesse, qualcuno potrebbe sentire l’eco della massima “The medium is the message” e, in effetti, a guardare bene il senso è proprio quello. È l’uso che facciamo dei social, calato nel contesto concreto della realtà e delle relazioni che viviamo, che spiega perché continuiamo a postare e aggiornare i nostri account.

Queste alcune delle conclusioni degli antropologi:

  1. I social media non ci stanno rendendo più individualisti. Anzi, nella maggior parte dei casi sono utilizzati per rafforzare i legami di gruppo e le relazioni face-to-face o crearne di nuovi. Basti pensare che la maggior parte delle foto che condividiamo, per esempio, sono foto di gruppo in cui tagghiamo chi era con noi in quel momento e che l’83% degli adolescenti cinesi condivide con amici e familiari l’accesso agli account. Senza contare, poi, che per i minatori del Chile i social sono l’unico mezzo di comunicazione nel periodo trascorso nei corridoi delle miniere o che in alcune comunità rurali, come quelle brasiliane, è l’unico modo che appartenenti a minoranze religiose diverse e in conflitto hanno di entrare in relazione, dove i contatti personali sono vietati.
  2. I social media non ci distraggono dall’educazione, sono forme d’educazione. E, in particolare, sono i più forti strumenti d’educazione informale, indispensabili dove esistono gravi limiti d’accesso all’istruzione ufficiale (per alcune comunità brasiliane, per esempio, i video su YouTube sono il principale canale educativo).
  3. Essere uguali online non vuol dire esserlo offline. Il che sembra dare ragione ai profeti di un dark side di Internet. L’ultimo modello di smartphone da cui postiamo, i consumi che esibiamo su Instagram e simili, servono in qualche caso a ostentare uno status sociale che vorremmo, ma non abbiamo. Così, per esempio, le donne turche sembrano godere, online, di una libertà e di una partecipazione che, invece, non hanno ancora nella vita di tutti i giorni. In altri casi sono proprio i social a ripetere le disuguaglianze della vita di tutti i giorni: alcune piattaforme cinesi, per esempio, assegnano punti e bonus a chi usa di più i social network , escludendo di fatto chi per questioni di reddito o lavorative ha scarso accesso alla rete.
  4. I social non ci stanno rendendo tutti uguali. Lo dimostra, banalmente, la popolarità dei post in dialetto o che hanno come contenuto abiti, maschere, danze, tradizioni locali. Anche l’aplomb usato sui social è in genere molto ‘locale’. Chiedetelo, soprattutto, agli inglesi che più di tutti gli altri usano queste piattaforme per mantenere le distanze: molto british.
  5. Gli affari sono social, sì, ma conta il passaparola . Come anche altri studi dimostrano, pure sui social ci si fida soprattutto di familiari, amici e, più in generale, di soggetti con cui si hanno rapporti nella vita di tutti giorni. Vale anche per il business. Non è un caso che, per quanto riguarda gli acquisti, abbiano grande successo su Facebook i gruppi creati per vendite tra privati o che in Brasile proliferi una sorta di mobile commerce via WhatsApp.
  6. Perché viviamo sui social network. Ovvero perché abbiamo smesso di considerarli un semplice mezzo di comunicazione e abbiamo preso a pensarli come un posto in cui trascorrere la maggior parte del nostro tempo, non quindi come un’alternativa alla nostra vita ‘reale’, ma come una sua estensione. Succede alle famiglie separate per lavoro che, così, ritrovano un po’ dell’intimità perduta. Succede a chi ancora, in paesi come la Turchia, è costretto a matrimoni combinati e solo in questo modo impara a conoscere in anticipo il futuro consorte. Succede, soprattutto, ai meno agiati della Cina industriale: qui, a detta degli antropologi, la fuga dall’offline all’online è più massiccia (e più efficace) di quella dalle campagne alle città.
  7. Perché i social aiutano la nostra sessualità. Soprattutto se di tipo omosessuale. In società o gruppi più tradizionalisti, a tutte le latitudini, i social hanno aiutato molti giovani soprattutto a fare coming out. A Trinidad, per esempio, un post sui social potrebbe essere l’unico modo per raccontare la propria storia di queer.
  8. Un meme vi seppellirà. Ovvero non c’è modo migliore dei meme per esprimere opinioni, giudizi, valori, specie se in contrasto con i più ricorrenti, tanto che, stando allo studio, questi funzionerebbero come una sorta di ‘polizia morale’. Scene di film, personaggi e situazioni iconiche riviste ad arte rappresentano uno dei modi più pratici  per dire la propria sui più svariati argomenti, usando l’arma dell’ironia e senza scadere nel flaming.
  9. E se i social tutelassero la nostra privacy anziché minarla? Non pensiamo, per un attimo, alle migliaia di dati che regaliamo a Facebook&Co. Pensiamo a come i social diano l’opportunità a centinaia di operai cinesi, abituati a dormitori affollati, di godere della riservatezza delle conversazioni o a come le donne indiane siano libere di leggere, postare, condividere contenuti senza l’occhio vigile del maschio. Del resto sta tutto nello scegliere consapevolmente cosa raccontare alla Rete. Chiedetelo agli utenti brasiliani che, più di tutti gli altri, ignorano le impostazioni della privacy di Facebook: perché dovrebbero nascondere al mondo le loro aspirazioni?

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