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Personal branding nel food: così cambiano consumi ed esperienze nell'alimentare

Personal branding nel food: consigli ed esempi

Perché (e come) il personal branding nel food ha cambiato l'approccio stesso ai consumi? Qualche caso di scuola e i consigli degli esperti.

In principio fu Gordon Ramsay (il cattivo di programmi come Hell’s Kitchen e Cucine da Incubo, ndr). Poi vennero personaggi come Carlo Cracco, Alessandro Borghese, Joe Bastianich, Bruno Barbieri, chef Cannavacciuolo, noti soprattutto al pubblico del piccolo schermo dove interpretano paladini della buona cucina, giudici di talent e reality show ambientati tra i fornelli, ecc. A ben guardare, però, la loro popolarità è solo la punta dell’iceberg se l’obiettivo è capire realmente come funziona il personal branding nel food.

Dal cibo al food: quanto ha influito il branding sugli stravolgimenti del settore alimentare

A primo impatto, infatti, sembra strano ammettere che persino un bene così primario come il cibo abbia bisogno oggi per vendere di ambasciatori e brand personali.

La domanda più giusta da porsi – come fa, per esempio, il saggio “Food Marketing” (di Carlo Meo ed edito da Hoepli) – sarebbe, in questo senso, quando abbiamo smesso di parlare di cibo e quando abbiamo cominciato a parlare invece di food. La chiave per capire gli enormi cambiamenti che sono intervenuti nel settore sta forse tutta qui, in un’operazione che ha l’aspetto e la consistenza di un vero e proprio riposizionamento. Quelli legati al cibo sono, infatti, acquisti funzionali: semplificando, ci si reca in un punto della gdo , si seleziona un paniere di prodotti essenziali, li si porta a casa e li si consuma durante i pasti. Quando si parla di food, invece, le decisioni di acquisto si fanno più complesse, c’è una componente razionale che convive con quella emotiva e sensoriale e, soprattutto, ogni scelta è anche e soprattutto una scelta di status.

Così, come potranno confermare per esempio gli amanti del caffè, una cosa è bere un espresso al bar sotto casa e un’altra è bere un Nespresso o, meglio ancora, un caffè da Starbucks. C’è ormai, in altre parole, una spiccata dimensione esperienziale nel consumo di prodotti dell’alimentare: complice anche la crisi, cioè, i nuovi foodie (ossia gli appassionati di cibo a cui il marketing del food si rivolge primariamente se non esclusivamente) non cercano la quantità ma la qualità, la memorabilità, la condivisibilità, persino di un momento come l’aperitivo o il pranzo della domenica. Ed è inevitabile che in questa dimensione esperienziale il brand giochi un ruolo fondamentale.

starbucks milano

L’interno di Starbuck’s a Milano. La recente apertura della prima sede italiana ha dimostrato come la dimensione esperienziale conti molto e distingua nettamente un espresso consumato al volo al bar sotto casa da un Frappuccino sorseggiato seduti da Starbuck’s.

Al fast food, sugli scaffali del supermercato, in TV: la sovraesposizione degli chef

È così, per esempio, che arrivano le selezioni di panini McDonald’s firmati da Gualtiero Marchesi prima o Joe Bastianich poi. Sono panini gourmet  per usare un aggettivo abusato e che ha finito per indicare versioni rielaborate di piatti della tradizione, esperimenti fusion, ecc. – realizzati con materie prime d’eccellenza, in qualche caso addirittura con specialità del territorio. Soprattutto, non sono solo il tentativo di estensione di McDonald’s verso un prodotto e un servizio almeno in parte diverso dal cuore della proposta di un fast food. Sono prodotti simbolici, il cui consumo stesso acquisisce un valore altrettanto simbolico proprio in virtù del fatto che escano  o almeno così si immagina  direttamente dalla cucina di grandi chef. È una partnership , in altre parole, da cui riescono doppiamente rafforzati i diversi brand coinvolti: quello della catena di fast food che diventa almeno temporaneamente attraente anche per un target almeno in parte diverso e più selezionato dal suo core da un lato e dall’altro quello dello chef che lega il suo nome a un’esperienza decisamente più pop.

personal branding nel food bastianich mcdonald's

Sono tre i panini speciali che McDonald’s ha lanciato nel 2018 in collaborazione con Joe Bastianich. In passato il brand aveva collaborato anche con Gualtiero Marchesi.

Chiedersi perché lo facciano, ossia perché fare personal branding nel food significa sempre di più legare il proprio nome a un prodotto che abbia già una certa notorietà, significa trovare spiegazione anche a un fenomeno, già in parte descritto, come la sovraesposizione mediatica degli chef. Ancora una volta, sono programmi come Masterchef o Bake Off che non possono fare a meno della presenza di chef Klugmann o di Ernst Knam oppure sono chef Klugmann ed Ernst Knam che hanno preso la palla al balzo per rafforzare almeno, se non addirittura costruire, il loro brand personale? Con ogni probabilità le ipotesi sono vere entrambe.

Quello che appare con maggiore evidenza, però, è che uscire dalla cucina  o dal retrobottega  ed esporsi è il modo migliore che chi lavora nel food ha per guadagnare quella visibilità che è alla base stessa del processo di costruzione di un personal brand solido. L’ospitata dello chef stellato in un programma del preserale, così come la rubrica fissa di un volto storico della pasticceria in un programma come La Prova del Cuoco, che ha sdoganato la food TV in Italia, servono cioè, e più di quanto si riesca a immaginare, a portare clienti in sala o al bancone. Come dovrebbe essere ormai chiaro, infatti, il consumo del food ha assunto un forte carattere aspirazionale: si risparmia anche per diversi mesi per vivere l’esperienza di una cena da Cracco, in virtù di tutto quello che una cena da Cracco significhi, e a guardare bene la ragione è la stessa per cui – e ha a vedere con un certo istinto d’imitazione – si prova a riprodurre in casa il piatto da chef appena visto in TV (in questo senso va letta persino un’operazione come quella di San Carlo che scelse come testimone proprio chef Cracco, chiedendo ai suoi consumatori di inviare idee per accostamenti e ricette per le patatine degni da chef, ndr).

personal branding nel food

“La cucina ha bisogno di audacia” era il payoff scelto da San Carlo per la campagna con testimonial Carlo Cracco.

personal branding nel food: quando anche la presenza digitale conta

Il corollario di tutto questo è un lusso – meglio, un’esperienza di lusso – che si fa di massa. L’esempio più lampante sono, forse, linee ed edizioni speciali di prodotti commerciali e della GDO firmate da chef e volti noti del food. Rientra anche questo in quella logica di visibilità che è al livello zero di ogni strategia di branding e, quindi, anche del personal branding nel food.

Oggi più che mai, però, essere visibili per chi opera nel food significa anche essere presenti, e con una strategia efficace, suoi social network . Quasi ogni anno, così, ci sono classifiche come quelle di Blogmeter che incoronano gli chef e i personaggi legati al food più social, con una community più grande e partecipativa, ecc.

Per la prima volta quest’anno è stato assegnato, però, il Best Digital Restaurant 2018 (il primo posto è del napoletano Palazzo Petrucci, ndr) a ristoranti e attività del settore Horeca che meglio hanno fatto social media marketing, probabilmente nella convinzione che non di soli brand personali vive oggi effettivamente la realtà del food.

Per chef, ristoratori, maestri pizzaioli che vogliano costruire o rafforzare la loro immagine attraverso i social valgono, comunque, le più classiche regole che servono a fare personal branding sui social network.

Autenticità e unicità: di cosa vive un brand personale nel mondo del food

L’autenticità e il saper trovare un elemento reale di distinzione per il proprio marchio contano molto in questo senso, sia dentro sia fuori la Rete.

Nel secondo caso non si tratta solo di trovare la propria, unica, proposta di valore in un contesto per altro ormai davvero sovraffollato: ci sono chef stellati, maestri pasticceri, bartender da seguire praticamente in ogni dove. Ancora una volta, è un’operazione decisamente più soft e che ha a che vedere con la riconoscibilità, la facilità di memorizzazione persino del proprio brand. A volte anche la propria immagine – intesa letteralmente come fisicità, look – aiuta: chi potrebbe dimenticare la stazza di chef Cannavacciuolo o la figura un po’ dandy di chef Barbieri, solo per fare due esempi a portata di pubblico generalista? In altre occasioni sono persino dettagli come l’inflessione della voce per esempio – si pensi, ancora una volta, a Joe Bastianich o, anche se in maniera molto meno marcata, a Oscar Farinetti – o un tratto caratteriale – c’è chi come Gordon Ramsay ha fatto dell’antipatia, con ogni probabilità studiata ad hoc, il proprio biglietto da visita – a rendere immediatamente riconoscibile chi opera nel food e il suo brand.

personal branding nel food cannavacciulo

Lo chef Antonino Cannavacciulo, noto per aver fatto da giudice a Masterchef e aver condotto programmi come l’edizione italiana di Cucine da Incubo.

personal branding nel food barbieri

Bruno Barbieri, anche lui tra i giudici di Masterchef, è famoso anche per i suoi look estrosi.

Quando si considera, invece, l’autenticità come via per il personal branding nel food non si può non far riferimento a una specialità tutta italiana. Siamo un Paese con una tradizione culinaria antica e ben apprezzata in tutto il mondo, tanto che chi viene in Italia lo fa spesso proprio per assaggiare pietanze e vini tipici del territorio.

Se e quando si ha la fortuna di poter legare il proprio nome alla storia di un’eccellenza nostrana, così, non si dovrebbe perdere l’occasione e, anzi, si dovrebbe insistere – certo dosando bene, di volta in volta, anche l’esigenza opposta di svecchiare la propria immagine – nel creare una narrativa coerente.

Si può mangiare, per esempio, un’ottima pizza in ogni città d’Italia ma non c’è ormai nome come quello di Sorbillo che richiami la tradizione dei maestri pizzaioli napoletani: è una conquista ottenuta nel tempo, grazie a uno storytelling studiato che ha avuto come componenti fondamentali l’idea di un’arte tramandata di generazione in generazione e il legame con il territorio, esplicitato tra l’altro nell’utilizzo quasi esclusivo di specialità del territorio appunto. Più il personal branding nel food funziona e più questo effetto antonomasia sarà marcato. Per restare in Campania, pochi potranno conoscere i dolci tipici della Costiera, ma tutti avranno sentito nominare almeno una volta la Delizia di Sal De Riso: il prodotto scompare (o quasi), più che una serie di sue caratteristiche oggettive conta la dimensione di esperienza di brand e con il brand e, in un’ideale chiusura del cerchio, l’esperienzialità torna a essere così proprio il fattore che sempre più definisce i consumi da foodie.

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