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Pink tax: ovvero, quanto (ci) costa la vita da donne

Pink tax: cos'è e quanto incide sulla vita di una donna

La pink tax - ovvero i rincari sulle versioni femminili dei prodotti - incide sulla capacità di spesa delle consumatrici donne e non solo.

Essere donna – in Italia e non solo – costa di più che essere uomini? Da anni domande come questa sono al centro di aspri dibattiti che vedono coinvolte istituzioni e associazioni di settore e che se hanno avuto un risultato concreto fin qui è stato di accendere almeno i riflettori sulla cosiddetta pink tax.

Su quali prodotti si paga una pink tax

Di cosa si tratta? Del sovrappiù che le consumatrici donne si ritrovano a dover pagare sul prezzo di numerosi prodotti, anche di uso quotidiano, per il semplice fatto di essere donne. L’esempio più iconico, quello da cui deriva del resto la stessa espressione «pink tax» e da cui hanno preso il via numerose campagne che mirano a eliminarla? Un pacchetto di cinque rasoi rosa per donne costa (meglio, costava: i prezzi di questo esempio sono, infatti, quelli twittati a inizio 2017 dall’allora ministro francese per le pari opportunità, ndr) 1,80 euro, mentre per dieci rasoi da barba tradizionale si paga appena 1,72. Tradotto? Significa che, se il conto si fa sulla singola unità, un rasoio femminile costa più del doppio di quello maschile.

Ed è un surplus con cui conviene imparare a fare i conti fin da bambini. Anche il prezzo dei giocattoli, infatti, varia molto a seconda che questi siano destinati a piccoli clienti maschi o femmine: una bicicletta rosa e per bambine, per esempio, costa almeno il 6% in più rispetto a versioni differenti. Crescendo, la fetta femminile di consumatori si accorge che questa differenza esiste anche per prodotti come shampoo e detergenti – in questo caso la differenza di prezzo può essere fino al 40% – o l’abbigliamento – per cui è stato registrato fino a un +10% – e senza contare prodotti specifici come tamponi o assorbenti igienici per i quali, al prezzo già mediamente alto, si aggiunge in molti paesi un problema di tassazione come beni di lusso (la cosiddetta tampon tax).

Se i prodotti femminili sono i più soggetti a fluttuazioni di prezzo

A fotografare, più in concreto, di cosa si parla oggi quando si parla di pink tax ci ha provato idealo, un portale internazionale di confronto dei prezzi. Se i prezzi massimi di molti prodotti per cui esiste sia una versione maschile sia una versione femminile sono nella maggior parte dei casi simili, sono i prezzi minimi che invece possono essere anche molto diversi e, nella maggior parte dei casi, maggiorati.

pink tax fluttuazione prezzi minimi prodotti femminili

Più nello specifico, quello che ha fatto idealo è stato confermare come, soprattutto adesso che con sempre più frequenza si compra online e più categorie di prodotti, i prezzi della merce destinata a un pubblico femminile sono più variabili, soggetti a una fluttuazione media di oltre il 49%, percentuale che per i prodotti maschili è invece ferma a circa il 33%. Sono soprattutto i prodotti di cui si fa un consumo sporadico a essere soggetti a una più ampia fluttuazione dei prezzi, cosa che invece avviene più moderatamente per i prodotti di uso quotidiano: le scarpe da tennis femminili, per esempio, hanno prezzi che variano fino a oltre il 100% – mentre per quelle da uomo la fluttuazione è ferma a circa il 46% –, ma se si guarda a prodotti come profumi o deodoranti la variazione percentuale si ferma rispettivamente al 19% e 36%, valori comunque alti rispetto al 9% e 16% che riguardano i prodotti per uomini. Questa incertezza rispetto ai prezzi, tra l’altro, potrebbe rendere le donne consumatrici più prudenti, se non addirittura restie e sempre in attesa del momento propizio per risparmiare un po’.

pink tax fluttuazioni prezzi lei e lui

Il conto non è dei più semplici per la quantità di variabili coinvolte, ma se si prova come ha fatto qualcuno a moltiplicare il numero delle volte in cui le consumatrici acquistano prodotti su cui è applicata una pink tax per l’arco di tempo – a volte tutta la vita – in cui hanno bisogno di consumare quel prodotto, la risposta sembra semplice: sì, essere donne oggi costa (molto) di più che essere uomini. E le prospettive sono addirittura meno rosee – è proprio il caso di dirlo – se si considera che in pochi paesi è davvero risolto il gender pay gap e, cioè, molte lavoratrici donne devono fare i conti con entrate mensili ridotte rispetto a quella dei colleghi uomini.

Alle origini della pink tax: se il problema è DI cultura prima (e oltre) che di marketing

Forse serve, però, fare un passo indietro e chiedersi come e da dove nasca la pink tax. Va da sé infatti che, sebbene l’espressione possa indurre in confusione, non si tratta di una vera accisa come è invece la tampon tax. La maggiorazione dei prezzi dei prodotti femminili è, appunto, una scelta di pricing e di conseguenza in qualche modo una scelta di marketing. Fu quando le aziende scoprirono di poter differenziare anche prodotti in origine neutri come un detergente o un rasoio, del resto, che nacquero bisogni di mercato nuovi e decisamente orientati su base di genere.

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La pubblicità di Milady Décolleté, il primo rasoio da donna Gillette.

Non a caso, quando si parla di pink tax uno degli esempi più citati è la pubblicità del primo rasoio per donne, il Milady Décolleté di Gillette. Sono già i campi semantici evocati dall’annuncio – in cui si parla di «regalo», «problemi personali imbarazzanti», ausilio indispensabile per le «donne di buon vestire» – a evocare un bisogno, quello dell’eliminazione dei peli superflui, che non è difficile immaginare fosse ancora latente per le donne dell’epoca. Poco è cambiato da allora e non c’è spot di prodotti per la depilazione e contro i peli superflui che, anche senza arrivare alle facili allusioni dello spot di Wilkinson Sword che con il suo «rasa il pratino» si guadagnò accuse di sessismo e altre critiche al vetriolo, non rischi di cadere nello stereotipo o di veicolare l’idea che la «lotta» ai peli superflui sia una task in cui ogni donna debba essere impegnata ogni giorno e con tutte le sue forze.

Abolire la pink tax, insomma, non può che richiedere un impegno congiunto di consumatori e brand . Per fortuna, i secondi si dimostrano oggi sempre più aperti e sensibili rispetto alle rivendicazioni dei primi ed è così che anche i brand più tradizionali, che per anni hanno messo sul mercato versioni rosa e per questo decisamente più costose dei loro prodotti rivolte a un pubblico femminile, stanno prendendo sempre più in considerazioni le questioni di genere anche legate ai consumi.

Per non parlare, però, di brand più nuovi e per natura genderless. Quella di prodotti che non abbiano distinzioni di genere, del resto, è una tendenza che ha conquistato in questi anni settori molto diversi – a partire da quello forse per tradizione più marcatamente di genere, la moda, con volti ben noti del fast fashion come Zara e H&M che da qualche stagione ormai hanno collezioni completamente ungendered – e che viene incontro a una visione della sessualità e del rapporto con il proprio corpo, prima che con gli altri, sempre più liquida. Per restare al settore della cosmesi e dei prodotti per la daily routine, così, oggi ci sono brand come Billie, il cui core business è ancora quello dei rasoi per la depilazione, che pur avendo una clientela e una vocazione «female first» (così scrive il brand nella sua missione aziendale, ndr) rinunciano ai vessilli tipici e un po’ stereotipati dei prodotti rosa e promuovono, invece, una visione di certo più emancipata – e a tratti persino più ironica e leggera – delle differenze di genere. Non a caso di Billie è lo spot passato alle cronache come il primo, tra quelli di rasoi e prodotti per la depilazione, che facesse vedere donne con veri peli da radere sulle gambe, mentre tutti gli spot più tradizionali – non senza un certo controsenso – promuovono gli effetti strabilianti dei prodotti in questione… ma su donne completamente glabre.

Per di più il brand è da sempre attivamente impegnato in campagne sociali per un empowerment femminile che parta e arrivi ai corpi: sono campagne come “Project Body Air”, che invitava le donne a mostrarsi fiere delle proprie forme anche se ricoperte di naturale peluria, o il più recente sostegno a #JanuHairy, hashtag con cui centinaia di utenti stanno liberamente mostrando sui social la propria scelta di non depilarsi.

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