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Pubblicità comparativa e diritto UE: importanti indicazioni dalla giurisprudenza della CGUE

Pubblicità comparativa e diritto UE: importanti indicazioni dalla giurisprudenza della CGUE

Attraverso alcune recenti sentenze della CGUE, i "confini" della pubblicità comparativa e di quella ingannevole.

Le problematiche concernenti la pubblicità comparativa e la pubblicità ingannevole non sono state affrontate solamente dal legislatore nazionale, ma – già da lungo tempo – anche da quello comunitario. Le ragioni della rilevanza per il diritto UE a questa materia sono piuttosto facili da intendere: la pubblicità si estende oramai oltre i confini dei singoli Stati membri e quindi ha un’incidenza diretta sul corretto funzionamento del mercato interno, cosicché la pubblicità ingannevole ed illegittimamente comparativa possono condurre ad una distorsione di quelle dinamiche concorrenziali del mercato, particolarmente care – com’è noto – alle istituzioni dell’Unione (art. 2 co. III T.U.E.).

Proprio per queste ragioni, la direttiva 114/2006/CE – stabilito che solo una pubblicità comparativa che confronti caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative e non sia ingannevole può essere un mezzo legittimo per informare i consumatori nel loro interesse (considerando nr. 8) – ha provveduto a definire un concetto e una disciplina generale di pubblicità comparativa, oltre che un concetto parimenti generale di pubblicità ingannevole (artt. 2 e ss.), entrambi poi recuperati pressoché pedissequamente dal legislatore nazionale con il D.Lgs. 145 del 2 agosto 2007.

Pubblicità comparativa e pubblicità ingannevole sono due concetti diversi?

Tuttavia, la normativa (sia interna che comunitaria) non ha mancato di sollevare perplessità interpretative. Ad esempio, non è risultato immediatamente chiaro il rapporto che si instaura tra pubblicità comparativa (illecita) e pubblicità ingannevole.

Il problema che si è posto, più specificamente, è stato quello di vagliare la legittimità della normativa nazionale rispetto alla direttiva comunitaria, atteso che la seconda prevede la pubblicità ingannevole e la pubblicità illegittimamente comparativa come due illeciti distinti, mentre quella italiana instaura un rapporto quasi di dipendenza dell’un concetto rispetto all’altro.

Sul punto è stato necessario l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Causa C-52/13 – Sentenza della Corte, Ottava Sezione, del 13 marzo 2014), sollecitata a seguito di rinvio pregiudiziale formulato dal Consiglio di Stato con il seguente quesito: «Se la direttiva [2006/114] debba interpretarsi, quanto alla tutela dei professionisti, riferita alla pubblicità che sia al contempo ingannevole ed illegittimamente comparativa ovvero a due distinti illeciti, anche autonomamente rilevanti, costituiti, rispettivamente, dalla pubblicità ingannevole e dalla pubblicità illegittimamente comparativa».

Questo perché un soggetto economico sanzionato dall’AGCM per aver diffuso una pubblicità ingannevole aveva impugnato la condanna inflittagli prima dinanzi al TAR e poi dinanzi al Consiglio di Stato, sostenendo che la direttiva 2006/114 fosse finalizzata a sanzionare unicamente i fatti che integrano al contempo una pubblicità ingannevole e una pubblicità illegittimamente comparativa e che il decreto legislativo n. 145/2007 dovesse quindi essere interpretato in tal senso. Dunque, secondo la prospettazione in parola, non esisterebbe pubblicità ingannevole al di fuori della pubblicità comparativa illecita, essendo la prima una sorta di “aggettivazione” della seconda.

In effetti la CGUE mette in evidenza come il problema interpretativo derivi, banalmente, dalla traduzione italiana della direttiva in parola, che si presta all’equivoco per cui i due concetti sembrerebbero una sorta di endiadi, mentre nella versione francese del testo, ad esempio, la questione non si pone affatto, risultando chiaro che si tratti di nozioni distinte. Ad ogni modo, tuttavia, la corte aggiunge che «la formulazione di disposizioni del diritto dell’Unione utilizzata in una delle versioni linguistiche non può essere l’unico elemento a sostegno dell’interpretazione di tali disposizioni. In caso di difformità tra le diverse versioni linguistiche di un testo di diritto dell’Unione, le disposizioni di cui trattasi devono essere interpretate in funzione della sistematica e della finalità della normativa di cui fanno parte».

Dunque, tenuto conto delle finalità non del tutto assimilabili ed egualmente rilevanti che le due nozioni perseguono, la Corte conclude affermando: «La direttiva 2006/114 deve essere interpretata nel senso che, per quanto riguarda la tutela dei professionisti, essa si riferisce alla pubblicità ingannevole e alla pubblicità illegittimamente comparativa come a due infrazioni autonome e che, al fine di vietare e di sanzionare una pubblicità ingannevole, non è necessario che quest’ultima costituisca al contempo una pubblicità illegittimamente comparativa».

Comparazione sì, ma come? quali parametri “falsano” il raffronto?

Si è detto che, a norma dell’art. 4 della Direttiva e dell’art. 4 del D.Lgs. 145/07, esistono una serie di criteri, essenzialmente ispirati a indici di correttezza metodologica e non decettività, in forza dei quali la pubblicità comparativa tra prodotti risulta lecita.

Trattandosi ovviamente di previsioni di carattere generale, però, il loro rispetto o la loro violazione andrà poi, com’è ovvio, verificato caso per caso, vagliando le modalità concrete con cui avviene la comparazione.

Ebbene, un problema che a tal proposito si è posto ha riguardato il caso in cui, pur essendo effettuato in maniera oggettiva e “documentale” il raffronto tra i prezzi praticati da diversi esercizi commerciali per un medesimo prodotto, la campagna pubblicitaria “abusi” delle maggiori dimensioni imprenditoriali degli esercizi commerciali del promotore rispetto a quelli del  competitor utilizzati per il raffronto. In particolare, accadeva che una nota catena multinazionale di supermercati lanciasse una campagna pubblicitaria televisiva su vasta scala, intitolata «Garantie prix le plus bas» (garanzia del prezzo più basso) in cui si raffrontavano i prezzi di 500 prodotti di grandi marche applicati presso i negozi con insegna del promotore con quelli praticati presso negozi d’insegne concorrenti, offrendo al consumatore il rimborso del doppio della differenza di prezzo se avesse rinvenuto altrove un prezzo più basso. Senonché, i prezzi del concorrente apparivano sempre più elevati senza che però fosse reso evidente agli utenti che da un lato venivano proposti i prezzi praticati presso ipermercati, mentre dall’altro (competitor) presso supermercati, dunque a negozi di dimensioni più ridotte.

Insorgeva quindi dinanzi al Tribunale di Commercio di Parigi il “raffrontato”, ottenendo una pronuncia a sé favorevole giacché il giudice adito riteneva che fosse stato adottato un metodo ingannevole di selezione dei punti vendita, tale da falsare la rappresentatività del confronto di prezzo, violando così i requisiti di obiettività previsti dal codice del consumo francese, realizzandosi così, in ultima istanza, atti di concorrenza sleale.

La Corte d’Appello di Parigi, tuttavia, sollecitava un intervento (i.e. rinvio pregiudiziale) della CGUE, ritenendo necessario ai fini della decisione che la Corte Europea precisasse se la Direttiva 114/06 dovesse essere interpretata nel senso che un confronto dei prezzi di prodotti venduti da insegne di distribuzione sia lecito soltanto qualora i prodotti siano venduti in negozi identici quanto a tipologia o dimensioni e se e la circostanza che i negozi i cui prezzi vengono confrontati siano diversi quanto a dimensioni e tipologia costituisca un’informazione rilevante ai sensi della direttiva 2005/29 e debba quindi essere necessariamente segnalata al consumatore.

La CGUE, con una recente pronuncia (Causa C-562/15 – Sentenza della Corte, Seconda Sezione, dell’8 febbraio 2017), è intervenuta precisando che effettivamente, in talune circostanze, la differenza quanto a dimensioni o tipologia dei negozi nei quali sono stati rilevati i prezzi posti a confronto dall’operatore pubblicitario può falsare l’obiettività del confronto. Tale situazione può verificarsi allorché l’operatore pubblicitario e i concorrenti presso i quali i prezzi sono stati rilevati appartengono ad insegne ciascuna delle quali possiede una gamma di negozi diversi quanto a dimensioni e tipologia e l’operatore pubblicitario confronta i prezzi applicati nei negozi della sua insegna di dimensioni o tipologia superiori con quelli rilevati in negozi delle insegne concorrenti di dimensioni o tipologia inferiori, senza che ciò appaia nella pubblicità. Per tali ragioni, quindi, anche la dimensione e la tipologia dei negozi raffrontati può costituire una informazione rilevante per il consumatore e, come tale, deve essere con chiarezza ricavabile dalla pubblicità diffusa.

Dunque, se il competitor disponesse solamente di tipologie di negozi più piccole rispetto a colui che lancia la campagna pubblicitaria, nessun problema. Se tuttavia esiste la possibilità di raffrontare i prezzi praticati presso esercizi commerciali omogenei per dimensioni o tipologia, costituisce una pratica pubblicitaria ingannevole quella di non procedere per tali vie, soprattutto ove il “calibro” dei negozi posti a confronto non sia esplicitato chiaramente nel messaggio pubblicitario.

Del resto, in un caso in cui una pay tv aveva pubblicizzato solamente il costo mensile dell’abbonamento ma non gli oneri aggiuntivi semestrali la CGUE aveva stabilito che una pratica pubblicitaria dev’essere considerata un’omissione ingannevole se induce il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, circostanza da verificare tenendo conto dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, della natura e delle caratteristiche del prodotto nonché delle altre misure che il professionista ha effettivamente adottato al fine di mettere le informazioni rilevanti relative al prodotto a disposizione del consumatore (Causa C-611/14 – Sentenza della Corte – Quinta Sezione – del 26 ottobre 2016).

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