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Ci sono davvero i segnali di una crisi dei social network? Una riflessione

Crisi dei social network: ci sono davvero i segnali? Una riflessione

C’è chi parla di una crisi dei social network, ricollegandola al calo di iscrizioni e di share: cosa c’è però di realistico?

È davvero in atto una crisi dei social network ? A guardare dati come quelli di ‘SocialMediaToday’ che rivelano quanto tempo si trascorre sui social sembrerebbe proprio di no: i teenager spenderebbero, infatti, su piattaforme di questo tipo almeno nove ore ogni giorno e anche per i più grandi il tempo “speso” su Facebook e co. è di quasi due ore, per l’esattezza 116 minuti, al giorno. Il risultato è che, nel complesso, passiamo circa cinque anni e quattro mesi della nostra vita sui social – mentre ne impieghiamo meno di tre e mezzo a mangiare e bere, per esempio – periodo di tempo in cui, stimano da ‘SocialMediaToday’, saremmo in grado di andare e tornare dalla luna almeno trentadue volte.

Quello tracciato, in altre parole, è il quadro di una vera e propria dipendenza da social network che non risparmia nessuno, nemmeno i più piccoli.

Chiudere i nostri account social, insomma, è una sfida a cui non siamo pronti. Mentre negli ambienti lavorativi e non solo c’è chi predica, così, un periodo di digital detox che dovrebbe servire a migliorare la produttività e la concentrazione dei dipendenti e a incentivare la creatività, c’è anche chi come ‘Kaspersky Lab’ sostiene che siamo letteralmente «intrappolati nei social». Questo è, infatti, il titolo di uno studio che suggerisce come la maggior parte degli utenti sarebbe felice di uscire dai social network se solo ne fosse capace. In numeri concreti? Almeno il 78% degli iscritti a un social network ha pensato una volta di cancellare il suo account, contro un 17% che sostiene di non essere mai stato sfiorato dall’idea e un 6% che ammette invece di “odiare” il mondo di social e affini.

Le ragioni principali che spingerebbero gli utenti a pensare di chiudere i propri account? La sensazione di sprecare troppo tempo (valida per il 39% degli intervistati) e quella di essere controllati dai giganti della Rete nei propri movimenti (30%), seguite da casi in cui la violazione dei propri account ha avuto un effetto concreto e spiacevole per la propria vita quotidiana (5%) o si è stati vittima di bullismo e discriminazioni a seguito di uno o più post pubblicati in Rete (4%).

Facile immaginare, allora, come questo bisogno percepito di abbandonare i propri account, se si trasformasse in realtà, potrebbe essere alla base della crisi dei social network. Perché, però, finora la fuga da queste piattaforme non è stata così consistente come si può immaginare e perché, nonostante ne senta il bisogno, la maggior parte degli utenti non riesce ancora a dire addio definitivamente ai social network? Rispondere a queste domande significa almeno in parte rispondere alla domanda “perché postiamo sui social?”. Secondo il ‘Kaspersky Lab’, nello specifico, il primo motivo che impedirebbe alla maggior parte degli iscritti di chiudere i propri account è la necessità di tenersi in contatto con i propri familiari o amici specie se lontani (ragione valida per il 62% degli intervistati): è un dato che, a guardarlo bene, spiega almeno in parte perché anche i giganti del social networking come Facebook stanno puntando sempre di più sull’instant messaging. Segue la necessità avvertita dagli iscritti ai social network di mantenere intatta la propria “memoria digitale” (18%). Ogni giorno vengono postate su Facebook e co. migliaia di foto e altri contenuti visivi e multimediali che, in non pochi casi, rischiano di restare l’unica traccia di avvenimenti importanti e tappe fondamentali della propria vita, dunque ricordi che la maggior parte delle persone non vuole perdere.

Tra le altre motivazioni che impediscono agli utenti di chiudere i propri profili c’è anche la praticità del social login (ragione su cui sarebbe d’accordo almeno il 18% degli intervistati). Dal gaming ai servizi di food delivery, infatti, si può accedere ormai a buona parte dei servizi digitali che richiedono una sottoscrizione proprio a partire dai propri account social e ciò non può che comportare un forte risparmio a livello di tempo.

Nemmeno il recente scandalo Cambridge Analytica sembra aver minato, comunque, la fiducia che gli utenti ripongono in Facebook e più in generale nei social network o averli resi più attenti alla sorte dei loro dati personali e alla loro sicurezza digitale.

 

Nonostante ricerche come quelle di SEMrush suggeriscano, tra gli effetti a breve termine dell’intera vicenda mediatica, l’aumento delle ricerche legate alla cancellazione degli account social. Solo nell’ultimo mese, da quando cioè è scoppiata la bolla di un uso malevolo da parte di terzi dei dati personali condivisi su Facebook,

  • 22mila persone in Italia avrebbero cercato “come eliminare l’account Facebook” (come per i risultati seguenti, dalla piattaforma hanno monitorato la ricorrenza della stringa su motori di ricerca come Google, ndr);
  • 40mila hanno chiesto, invece, ai motori di ricerca “come cancellarsi da Facebook
  • e più in generale le stringhe di ricerca sul tema hanno superato le 68mila ricorrenze,
  • mentre un aumento consistente ha riguardato, più in generale, le ricerche su privacy e trattamento dei dati personali.

crisi dei social dopo cambridge analytica

Cos’è e perché nessuno sfugge alla social media reversion

Non stupisce, insomma, che quello che dalla Cornell University hanno indicato come social media reversion sia un effetto così comune. Di cosa si tratta? Della necessità, avvertita dopo un periodo relativamente breve di “astinenza”, di tornare a riattivare i propri profili social. Nel 2014, infatti, una non profit aveva lanciato su 99daysoffreedom.com la sfida ad astenersi da Facebook per almeno 99 giorni: chi anche riuscì a portare a termine l’esperimento, dopo il periodo in questione, tornò ad attivare il profilo, in qualche caso con una sorta di smania. Fu facile rendersi conto allora che

  • i social network sono sempre più intesi come “luoghida abitare e tutto quello che si fa sui social network fa sempre più parte di una sorta di routine quotidiana definita;
  • spesso sono gli stessi utenti dei social network a mettere in pericolo la propria privacy, con comportamenti a rischio cybersecurity: chi è più sensibile a questi temi, comunque, tende a ritornare prima su Facebook e simili di quanto non faccia, per esempio, chi usa i social soprattutto per fare personal branding e cioè per veicolare un’immagine ben precisa di sé;
  • quasi nessun utente è un utente mono-piattaforma e, cioè, quasi nessuno ha un profilo su un solo social network: in particolare, più account si hanno e meno si è propensi a tornare subito su Facebook o, nel caso in cui lo si faccia, si tende a usare il social con più consapevolezza, disinstallando per esempio l’app mobile e limitandosi ad accedere solo da social;
  • anche l’aspetto emotivo conta non poco per la social media reversion: chi al momento dell’abbandono della piattaforma è di buon umore sarebbe meno propenso, per esempio, a tornarci, mentre il contrario avviene per chi sta passando un momento difficile.

Così sempre più giovanissimi lasciano Facebook e i social “tradizionali”

Se c’è qualcosa di reale quando si parla di crisi dei social network, insomma, è solo una “fuga” degli utenti più giovani dalle piattaforme mainstream e ormai considerate “tradizionali”, Facebook in primis. A confermarlo è uno studio di ‘eMarketer’ sui social più amati dai teenager: stando ai suoi risultati, il numero di utenti tra i 12 e i 17 anni attivi su Facebook dovrebbe calare entro la fine del 2017 del 2.8%, mentre tra gli utenti dai 18 ai 24 anni si dovrebbe avere un calo ancora più consistente (3.1%). La responsabilità? È da attribuire solo in parte a social come Snapchat, che secondo lo stesso studio dovrebbe sorpassare presto Facebook e Instagram quanto a popolarità e uso effettivo tra i giovanissimi.

Non è solo la disponibilità di piattaforme diverse a giustificare, comunque, i tanti giovanissimi che lasciano Facebook e guardano ad ambienti costruiti più “su misura”. Ci sono ragioni più soft. Come ha sottolineato nel 2014 Giovanni Boccia Artieri, professore dell’Università di Urbino e sociologo, infatti «i giovani stanno imparando per esempio a gestire le proprie comunicazioni in modo meno indifferenziato, a escludere da certi messaggi gli adulti o gli amici che sono fuori dalle proprie cerchie». In alcuni casi questo significa, per esempio, poter inviare foto senza lasciare traccia, commentare in modo anonimo o persino vivere in modo del tutto nuovo e quasi “virtuale” la propria sessualità: non a caso il successo di Snapchat, per esempio, fu legato agli esordi alla possibilità di fare sexting , scambiando foto intime in chat private e dalla durata di solo ventiquattro ore.

A ciò fa eco una riflessione sempre del 2014 di Mauro Magatti, professore dell’Università Cattolica di Milano: «poiché su Facebook sono entrati ormai tanti adulti e anziani, i giovani cercano social network tutti per sé, dove tra l’altro non rischino di essere osservati dai propri genitori. Non c’è solo questo però: i teenager trovano nei nuovi social e nelle chat strumenti più efficaci, più adatti alle proprie esigenze relazionali. Sono strumenti più veloci, più intimi e in grado al tempo stesso di fondere meglio, rispetto a Facebook, la vita online con quella offline». Vista da questa prospettiva, la crisi dei social network più tradizionali presso i giovani altro non è che l’ennesima espressione della loro profonda ribellione e del loro sostanziale anticonformismo: fuggendo dalla “normalità” di Facebook, una normalità fatta persino di controllo e sorveglianza da parte dei “grandi”, gli adolescenti riscoprirebbero una quotidianità più libera, sicura, intima, soprattutto vera.

Un aspetto tutt’altro che trascurabile della presunta crisi dei social network sarebbe, infine, il crollo delle condivisioni su Facebook, e non solo.  Secondo dei dati riportati nella primavera del 2016 dal magazine statunitense ‘The Information’, infatti, l’attività di sharing complessiva era diminuita del 5,5% da metà 2014 a metà 2015. Osservati speciali erano stati soprattutto i post di natura personale, in calo nello stesso periodo di oltre il 21%. In altre parole? Gli utenti Facebook sembravano essere sempre meno propensi a condividere informazioni personali, dettagli delle loro giornate, foto private o che li ritraevano con gli amici. Le ragioni? Sembrarono subito da cercare nella “professionalizzazione” del social di casa Zuckerberg: negli anni, infatti, Facebook è diventato sempre di più una buona piazza per gli investimenti da parte delle aziende, con una considerevole fetta dei post che affollano le dashboard da attribuire a sponsorizzazioni e investimenti in advertising e con politiche che, dalla stessa piattaforma, sembrano premiare i contenuti brandizzati (si pensi in questo senso agli accordi con gli editori, per esempio, o agli strumenti di analytics offerti a chi ha una pagina business, ndr).

Non c’è da stupirsi allora né che da un lato anche gli utenti comuni abbiano cominciato a fare un uso sempre più “professionale” dei loro account social, preferendo ai post personali contenuti che puntino a meglio definire la propria immagine o a fare personal branding , né che dall’altro qualcuno abbia cominciato a sentirsiinvaso” da comunicazioni commerciali e indesiderate in uno spazio che considerava privato. Allarmismi a parte, comunque, anche da Menlo Park sembrano aver avvertito il problema: tanto che, nello stilare un “manifesto” di Facebook, lo stesso Zuckerberg sembra aver ribadito l’importanza di rimettere al centro le persone.

A questo servono piccoli cambiamenti come gli aggiornamenti degli algoritmi che premiano i post degli utenti con cui si hanno più interazioni, quasi a ribadire la necessità di tornare a quando Facebook aveva la missione di riconnettere le persone; o come il nuovo Feed Esplora che sposterebbe in uno “spazio” a sé post e contenuti di account e pagine con cui non si hanno interazioni o che non siano sponsorizzati e, ancora, come gli Accadde Oggi che userebbero il “potere” dei ricordi per aumentare la permanenza degli utenti sul social e la loro predisposizione a condividere contenuti.

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