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La sfilata Gucci pro-aborto è un chiaro segno che, no, i brand non possono non prendere posizione

La sfilata Gucci pro-aborto ha portato in passerella chiari messaggi femministi ed è la dimostrazione che i brand devono prendere posizione.
Anche la moda è un terreno politicizzato e le firm hanno il dovere di non restare neutrali davanti a questioni rilevanti per la cosa pubblica. Sembra questo il messaggio di quella che è stata già ribattezzata come una sfilata Gucci pro-aborto.
I capi della sfilata Gucci pro-aborto e i messaggi femministi del brand
Durante lo show ai Musei Capitolini il brand ha mandato in passerella capi che non potevano non rappresentare una chiara presa di posizione in difesa dei diritti delle donne e contro l’ondata di leggi che minacciano di rendere più difficili le interruzioni volontarie di gravidanza. Mentre l’America restringe l’accesso all’aborto ospedaliero e anche in Italia c’è chi propone di farlo, le modelle di Gucci sfilano, infatti, con blazer dagli slogan femministi – su tutti, «My body, my choice» che riecheggia le rivendicazioni dei gruppi femministi degli anni Settanta – o capi spalla con ricamata la data in cui fu approvata in Italia la famosa legge 194 e, ancora, vestiti su cui campeggia un utero intessuto come fosse un fiore, segno che neanche un’interruzione di gravidanza può estirpare – come intendono far credere, invece – la bellezza e la forza della donna.
Le firm di moda alla prova della corporate diplomacy
Non è la prima volta del resto che, sotto l’estro di un direttore creativo come Alessandro Michele, Gucci punta all’inclusione. Lo ha fatto, di recente, con una collezione make-up che provava soprattutto a smentire gli stereotipi di bellezza femminile.
Anche quella che è stata ribattezzata come una sfilata Gucci pro-aborto, insomma, non è stata altro che un’occasione per ribadire l’importanza di rispettare le donne e le loro scelte, «in qualsiasi occasione e soprattutto quando prendono una delle decisioni più difficili in assoluto, come interrompere una gravidanza», come avrebbe spiegato al Guardian Alessandro Michele dopo la sfilata ai Musei Capitolini.
Non è un’iniziativa isolata, però, quella di portare in passerella dei messaggi fortemente politicizzati. Da sempre, tra i programmi di CSR, Gucci sostiene per esempio Chime for Change, una campagna contro il gender gap richiamata tra l’altro durante la stessa sfilata da una modelle che indossava una felpa con impresso il logo dell’iniziativa.
Se nessun brand può più rinunciare oggi a quella che è stata battezzata come corporate diplomacy, e cioè a prendere posizione rispetto ai grandi temi rilevanti per il territorio in cui opera, le comunità a cui si rivolge, senza sentirsi cioè in obbligo di restare neutrale, per i brand di moda è ancora più prioritario fare in modo che valori e mission aziendali risultino in linea con quelli del proprio target . Qualsiasi acquisto, del resto, e per di più un acquisto che si porta addosso come un capo di abbigliamento, ha oggi un valore simbolico, emozionale, di status che prescinde quello oggettivo-economico. Chi dovesse scegliere di indossare un capo della sfilata Gucci pro-aborto insomma lo farebbe, come il brand, prendendo posizione netta – e pubblica – rispetto al tema.
Non solo Gucci: anche l’industria dello spettacolo dice no ai paesi anti-aborto
La firm milanese, comunque, non è stata l’unica a cavalcare la cronaca delle proposte di legge che in questi mesi hanno provato a vietare l’aborto in diversi stati americani per ribadire i propri valori. Alcuni big dell’intrattenimento, per esempio, sono andati ben oltre, minacciando misure dal grave impatto economico per i paesi che hanno intrapreso questa via anti-femminista. Come conferma la CNN, per esempio, pochi giorni fa Netflix ha annunciato che potrebbe boicottare la Georgia se il provvedimento anti-aborto approvato dal governatore diventasse effettivo. Il Paese, infatti, è stato fin qua un punto di riferimento per la produzione di film e serie TV, soprattutto in virtù del regime finanziario agevolato. Vietare l’aborto – o restringere fortemente l’accesso alle cure ospedaliere, come di fatto prevedono questo provvedimento e molti altri simili – non andrebbe solo contro valori e mission della piattaforma, ma potrebbe crearle non pochi problemi con le tante lavoratrici (e utenti) donne. Sulla stessa onda di pensiero anche Disney e WarnerMedia che si sono detti preoccupati della situazione e propensi a interrompere le produzioni nel Paese. Non è più un mistero, del resto, che c’è un soft power esercitato dai brand – digitali e non – e che ha effetti tutt’altro che leggeri sulla gestione della cosa pubblica.
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