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Sharing economy: è davvero un bene per la nostra economia?

Sharing economy: è davvero un bene per la nostra economia?

La sharing economy fa tendenza e offre importanti vantaggi, ma nasconde anche insidie da controllare con norme armonizzate fra i vari paesi.

Ogni fenomeno ha un suo ciclo di vita, influenzato dal contesto sociale ed economico entro il quale si sviluppa. Questo è sicuramente il periodo in cui la sharing economy – o, in italiano, il consumo collaborativo – sta vivendo un momento di grande affermazione in tutto il mondo. Un ideale teorico presentato già molto tempo fa, ma che negli ultimi anni ha ottenuto in breve tempo un forte impatto grazie ad Internet e al riemergere del valore della condivisione anche dal punto di vista sociale. Condivisione e riduzione del consumismo sono fra i punti cardine della sharing economy, comunemente intesa come un sistema economico fondato sulla collaborazione e la condivisione di beni, servizi, informazioni, ma anche tempo, spazio e competenze. E se è vero che l’unione fa la forza, in questo caso fa sicuramente anche il risparmio. Per questo negli ultimi anni, caratterizzati da difficoltà economiche per molti, le piattaforme collaborative presenti sul web si sono moltiplicate e diffuse in maniera crescente, anche in Italia. Se quindi non possono esserci dubbi sul fatto che il fenomeno della sharing economy sia oggi una realtà ben affermata, esiste una questione per molti ancora aperta attorno ai vantaggi che possono effettivamente derivare da questo modello economico.

Sharing sì o sharing no?

Sempre più persone scelgono di affidarsi ad applicazioni fondate sulla collaborazione per risparmiare danaro nell’uso di alcuni servizi, guadagnare mettendo a disposizione altrui qualcosa, o semplicemente per provare un’esperienza diversa; tuttavia non mancano le critiche da parte di sindacalisti, imprenditori o economisti per le diverse problematiche che questo modello comporta.

Il fulcro principale delle critiche alla sharing economy ruota attorno alla concorrenza sleale. Secondo molti l’economia della collaborazione regge sull’uso di servizi basati sulla poca trasparenza e sulla mancanza di regole lavorative. Per inquadrare meglio il contesto, ricordiamo che le applicazioni di condivisione più famose come Airbnb (piattaforma di intermediazione nello scambio di camere e casa tra gli utenti) e Uber (società che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato) hanno rispettivamente raggiunto il valore di borsa di 25,5 miliardi di dollari e un fatturato di 50 miliardi di dollari.

Partendo dall’esempio di Uber, la società offre servizi senza pagare le tasse e i contributi ai suoi autisti, né proteggere i lavoratori dagli infortuni in quanto non risultano dei dipendenti. Non è un caso che la sharing economy per qualcun’altro sia nota come la “Gig Economy” (ovvero l’economia dei lavoretti) quelli “a rimborso spese” non regolamentati, non tassati e senza alcuna copertura assicurativa, proprio come per Uber.

Non mancano le preoccupazioni nemmeno per il mercato turistico, uno dei settori economici più importanti per l’Italia. L’utilizzo di Airbnb di solito è accompagnato dall’elusione di regole e la mancanza di licenze, quindi chi mette a disposizione il proprio appartamento non può porsi sullo stesso piano delle strutture ricettive normalmente sottoposte a controlli di sicurezza, qualità e promozione, in grado di offrire maggiori garanzie; senza dimenticare che i proventi economici derivanti da queste attività non vengono dichiarati. Tutto questo ha un impatto anche sul controllo dei movimenti dei viaggiatori, visto che i dati non vengono comunicati a nessuno, tanto meno vengono trasmessi agli organi competenti preposti alla misurazione dei flussi turistici.

Queste facilitazioni per lo più fiscali permettono alle società di proporre beni e servizi a prezzi molto più bassi delle comuni imprese locali, di negozi, piccole attività ricettive ecc. e generando così enormi fatturati.

Quali sono i rischi della sharing economy?

Uno dei principali rischi è che ogni responsabilità ricada sui lavoratori, intesi come coloro che condividono i propri beni. Mentre le società che si occupano di mediare tra domanda e offerta ottengono grandi guadagni avendo in carico solo i costi di gestione della piattaforma, gli investimenti gravano tutti sui lavoratori che per esempio, nel caso di Uber, devono pagare carburante, assicurazione, manutenzione dell’auto ecc. Allo stesso modo sono i lavoratori a subire le possibili conseguenze di eventuali illegalità che avvengono nel corso di una transazione o a pagare i danni causati da fenomeni non prevedibili. Non meno importanti i rischi legali che, tuttavia, variano da paese a paese.

A proposito della sharing economy la Commissione Europea si è schierata apertamente a favore, segnalando da Bruxelles la chiara volontà di aprire le porte ad una regolamentazione comune ma non restrittiva. Quello della sharing economy infatti è un fenomeno in evidente crescita che non si può frenare, al contrario va controllato per limitare gli effetti negativi e generare benefici condivisi da tutte le parti.

La Comunità Europea propone nuove linee guida volte anzitutto a raggiungere un’armonizzazione delle norme fra i diversi Paesi dell’UE, a ridurre i rischi per i lavoratori e in alcuni casi porre dei limiti ai servizi, come, per esempio, la definizione di un numero massimo di giorni per gli affitti delle case affinché non si incorra nella concorrenza sleale. Interessante sarà vedere in che modo le linee guida della Comunità Europea si intersecheranno con la proposta di legge italiana, che ha l’arduo obiettivo di controllare il settore con norme chiare e precise, sebbene la stessa proposta non chiarisca davvero e univocamente il concetto di sharing economy e in che modo distinguere i sistemi basati sulla condivisione di beni e servizi da forme di business vere e proprie.

È difficile prevedere dove ci condurrà la sharing economy, l’unica certezza è che rappresenta un tassello sempre più importante per l’economia contemporanea e che necessita con urgenza di una regolamentazione chiara, sia a livello nazionale che europeo, affinché non sfoci nell’oligopolio di poche grandi società online.

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