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Ripensare le smart city: il ruolo di PA e soggetti pubblici

Smart city: il ruolo della pubblica amministrazione e dei soggetti pubblici

Cosa rende una smart city davvero “smart”? E cosa possono fare pubbliche amministrazioni e soggetti pubblici per farsi trovare pronti?

Secondo delle stime delle Nazioni Unite, entro il 2050 circa il 66% della popolazione globale vivrà in aree urbane: un’urbanizzazione ancora più massiva di quella attuale che costringerà le città a fare i conti con un sovraccarico quanto a trasporti, infrastrutture e altre utility indispensabili per la vita associata. La soluzione? Potrebbe essere, allora, nella tanto vantata smartness delle moderne città connesse (smart city). I luoghi in cui viviamo e gli oggetti che ci permettono di farlo, però, sono davvero così intelligenti come pensiamo? A rispondere a questa domanda ci hanno provato alcuni dei maggiori esperti del settore durante la due giorni della BTO – Buy Tourism Online 2016.

Per una definizione di smart city

Una premessa, a questo punto, è d’obbligo. Per come è stata formulata da certa sociologia urbana, una smart city è una città che riesce nell’ottimizzazione dei servizi e lo fa grazie alla tecnologia, che sfrutta quotidianamente il grande potenziale di dati provenienti dagli oggetti e dagli umani connessi da cui è popolata e lo fa per migliorare la qualità della vita di chi la abita, con soluzioni intelligenti, appunto, che riguardano di volta in volta l’inquinamento, la mobilità, la sicurezza, etc. Le parole chiave per una smart city veramente smart, insomma, sono connettività, dati, intelligence e sono le sole che possono assicurare efficienza, sostenibilità, convenienza.

Il problema? La sola tecnologia – compresa la sua applicazione pratica – è stata, fin qui, considerata troppo spesso il driver fondamentale per la crescita delle smart city e si è ignorato invece – come ha fatto notare Grazia Concilio, docente di Tecnica e Pianificazione Urbanistica al Politecnico di Milano, durante BTO 2016 – l’importanza di elementi soft e «atteggiamenti virtuosi» da parte, per esempio, di enti pubblici e amministratori. Il risultato? È quella sorta di paradosso che ha reso indispensabile, a un certo punto, l’introduzione del concetto di human smart city: una città intelligente sì, ma in grado di riscoprirsi a misura d’uomo, come se avesse veramente senso di esistere solo se pensata come al servizio dei suoi cittadini.

Perché una smart city vive di dati

A complicare le cose, più che renderle agevoli, sembra aver contribuito fin qui l’enorme mole di dati prodotta ogni giorno da chi abita le smart city. Sono dati che provengono da alcune delle operazioni più banali che chiunque compie quotidianamente: prelevare ad uno sportello bancomat, usare il navigatore o un’app che monitora il sonno o la fame. Senza contare l’immane quantità di oggetti connessi che usiamo ogni giorno, fuori e dentro casa.

Dati come questi, meno fantascientificamente di quanto si possa immaginare, in un futuro prossimo permetteranno alle città di essere sensibili alle necessità di chi le abita. Come scrive qualcuno, infatti, il futuro è fatto di edifici che riconoscano le condizioni di luce e temperatura esterna e adattino quelle interne di conseguenza, che raccolgano acqua piovana e la trasformino per renderla utilizzabile, etc. E questo solo per quanto riguarda uno degli aspetti cruciali della vita nelle smart city.

Fin qua, invece, hanno rischiato solo di rendere le pubbliche amministrazioni un grosso, mastodontico, ingombrante «leviatano» – così si è espresso Marco Piastra dell’Università di Pavia a BTO 2016 – di cui i cittadini farebbero volentieri a meno. Stretta tra retaggi burocratici e il mito della openess – quella stessa trasparenza che ha costretto comuni, ministeri e simili ad andare sui social spesso senza una vera e propria strategia digitale – la pubblica amministrazione non si è dotata ancora di una buona politica per lo sfruttamento dei dati a disposizione. Dati che, tra l’altro, come è stato fatto notare durante l’incontro fiorentino, di fatto «appartengono» ai cittadini e dovrebbero essere restituiti loro, aggregati e trasformati in digital commodities perché abbiano una qualche utilità per la vita associata.

Concretamente? Si tratta, a un livello zero, di poter fornire informazioni localizzate in tempo reale (su trasporti, servizi, etc.), per esempio. Cosa che già, di fatto, fanno alcuni servizi disponibili sui più comuni app store e nati dalla buona volontà di chi le città le vive ogni giorno. Si tratta, ad esempio, di app come MappiNA, presentata a BTO dal CEO Ilaria Vitellio, in grado di fornire una mappa «alternativa» delle città, dei loro servizi, del patrimonio edilizio, compilata grazie a cittadini volenterosi e ben avvezzi a una logica open source. Sono app che insegnano, insomma, che il valore aggiunto di una città intelligente è il vero coinvolgimento dei cittadini che può partire dalla valorizzazione delle cose che già sanno e fanno spontaneamente: ne sa qualcosa chi ha provato a sfruttare il geo-helping in prospettiva di marketing o a raccontare una città a partire dalla mania dei selfie ai piedi.

Al centro della smart city devono esserci, in altre parole, bisogni e necessità dei cittadini e servizi pensati secondo un design human-centered. Alle pubbliche amministrazioni va il compito di fornire le infrastrutture abilitanti (e, no, una semplice rete Wi-Fi pubblica non basta), di creare condizioni – che non diventino condizionamenti – perché la città mostri tutta la sua intelligenza e perché non si corra ancora il rischio di mortificare, come spesso accade, i contenuti e le soluzioni più smart.

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