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Social eating: ovvero sedersi a tavola con degli sconosciuti e fare network o raccontare la città

Social eating: cos'è, a che serve e come farlo

Cos'è il social eating? E perché sempre più persone decidono di condividere un pasto con degli sconosciuti? Scopriamolo.

Come il car sharing e i modelli di ospitalità alla Airbnb, anche il social eating è figlio della sharing economy. Se da sempre, e prima ancora che gli ambienti digitali sdoganassero l’idea della condivisione e ne facessero un modello economico, i pasti hanno una dimensione e una componente di convivialità non indifferente, cosa ha di speciale però questo cosiddetto mangiare sociale? Come gli host di Airbnb decidono di ospitare temporaneamente a casa degli sconosciuti, anche il social eating si basa sulla non necessaria conoscenza tra commensali e padrone di casa. Non è detto cioè che il cuoco o chi per lui mette a disposizione il suo salotto, la sua sala da pranzo debba conoscere tutti gli invitati: anzi, la situazione ideale è l’esatto contrario, quella in cui non solo l’oste non conosce i suoi ospiti, ma anche gli ospiti sono tra di loro estranei, perfetti sconosciuti.

Social eating: perché piace?

Chi fa social eating, del resto, non è tanto alla ricerca dell’esperienza culinaria perfetta, – anche se, sì, in qualche caso cene come queste sono un’occasione ideale per assaggiare pietanze tipiche o nate dalla fusione tra tradizioni diverse – quanto di compagnia, amicizie, nuove possibili cerchie in cui inserirsi. Non a caso il social eating è un fenomeno da città: di recente un report sul fenomeno del social eating in Italia, realizzato dallo stesso gruppo che ha studiato il profilo del turismo enogastronomico nostrano, ha confermato come Lombardia (con il 20%), Lazio (14%) e Piemonte (10%) siano le prime tre regioni per iscritti a piattaforme come Gnammo. Tre regioni nelle quali si trovano, appunto, alcune delle principali città italiane: più queste sono grandi e più è facile essere soli e sentire il bisogno di fare nuove amicizie, conoscere nuove persone, meglio se davanti a un buon piatto e a un buon bicchiere di vino. In qualche caso, le cene tra sconosciuti che hanno prenotato un posto alla tavola di un host altrettanto sconosciuto sono persino un ottimo modo per fare networking professionale o una buona alternativa all’online dating.

La popolarità guadagnata dal social eating, del resto, ha fatto nascere in questi anni fenomeni paralleli: dalle cene tematiche ai veri e propri eventi in cui alla parte culinaria si associa quella d’intrattenimento. Il report già citato, per esempio, evidenzia un trend che è la sempre maggiore frequenza con cui ci si può imbattere in eventi e occasioni speciali quando si utilizzano piattaforme apposite: su Gnammo, per esempio, le Special Dinner – e, cioè, le cene organizzate in dimore storiche o in location suggestive, a contatto con la gente del posto o che prevedono delle cooking class – rappresentano oggi quasi il 40% delle proposte tra cui gli iscritti possono scegliere, a dimostrazione appunto dell’importanza della dimensione esperienziale.

Se all’inizio, insomma, qualche commentatore guardò al social eating, tra le altre cose, come a una soluzione agli sprechi (economici, di materie prime, ecc.) di una cucina da single per esempio, oggi il prezzo medio di una cena o un pranzo di questo tipo è decisamente aumentato: in maniera assolutamente indicativa e per fare una stima, raramente è inferiore ai 30 euro. Ancora una volta, però, non sono solo le portate che si pagano: anche nel conto la voce esperienza ha un peso molto rilevante.

Non stupisce, in questo senso, che il social eating sia un fenomeno tipicamente da Millennial: più delle altre generazioni, infatti, i 20-30enni di oggi sono alla ricerca di esperienze nuove e disposti a pagare di più per un prodotto o servizio che abbia per loro un valore simbolico, prima e oltre che meramente pratico.

Più nello specifico, a fare social eating in Italia sarebbero oggi soprattutto i 35-44enni (il 37% degli iscritti a piattaforme del settore appartiene a questa fascia d’eta) e i 25-34 enni (che rappresentano il 28% degli utenti). C’è una tendenza curiosa, però, per cui man mano che cresce l’età degli utenti è più probabile che questi siano cooks, cioè organizzatori delle cene piuttosto che semplici commensali. Se per i giovanissimi, infatti, il social dinning è, come si è detto abbondantemente, solo un’esperienza tra le tante da poter vivere, per chi è più grande mangiare con degli sconosciuti è un’opportunità in più per socializzare e fare nuove amicizie o far conoscere piatti tipici e diffondere una certa cultura del buon mangiare, oltre che un’alternativa per il tempo libero.

Le principali piattaforme di social eating e un problema di inquadramento

Sembra vero, insomma, ma non troppo che sono i giovanissimi ad avere oggi una familiarità maggiore con l’economia delle piattaforme. Non ci sarebbe social eating, infatti, senza piattaforme come Gnammo – la prima in Italia e, oggi, la più grande con oltre 200mila utenti registrati e ben 20mila cene ed eventi realizzati – o Eatwith – che ha, invece, un pubblico più internazionale ed è pensata soprattutto per i turisti che vogliano vivere un’esperienza veramente immersiva nella cultura e tra la gente dei posti che visitano –. Su piattaforme come queste il cuoco o l’host si iscrive, crea un profilo completo e che riporti informazioni personali e di carattere generico sulla base delle quali possa essere scelto e, di volta in volta, organizza l’evento, avendo cura anche in questo caso di esplicitare informazioni come il menu, la location, l’orario del pranzo o cena sociale. È sulla base di queste ultime, infatti, che gli ospiti scelgono di partecipare, prenotando il loro posto a tavola. In non pochi casi, le piattaforme giocano anche da facilitatori, offrendo agli host servizi aggiuntivi come la possibilità di stipulare una polizza assicurativa o gestendo il sistema di pagamenti ed eventuali rimborsi.

Il fenomeno, del resto, ha ormai assunto delle dimensioni considerevoli. Gli ultimi dati riferiti all’Italia, datati 2014, parlavano di un fatturato annuo di oltre 7 miliardi di euro ma è facile immaginare che, nel frattempo, questo sia considerevolmente aumentato. Quello che manca – ed è un destino, questo, che il social eating condivide con molte altre declinazioni della sharing economy – è una chiara regolamentazione in materia. Ci sono requisiti sanitari che devono essere rispettati quando si organizza una cena a casa ma gli avventori non sono familiari o amici? O c’è un numero massimo di coperti serviti? E, ancora, come devono essere inquadrati i guadagni? Soprattutto, in cosa il social eating è diverso dall’home restaurant? All’inizio del 2017, in Italia un disegno di legge provava a dare risposte a domande come queste e a inquadrare meglio la questione. Come sempre, però, quando si tratta fenomeni nati negli ambienti digitali, l’autoregolamentazione e le pratiche diffuse tra gli utenti sono i migliori principi guida. Quanto alla differenza tra social eating e home restaurant, così, viene in aiuto per esempio il codice etico di una piattaforma come Gnammo, a cui si aggiungono dei dati rassicuranti che riguardano il modo in cui, gli italiani soprattutto, fanno oggi social eating. Manca completamente innanzitutto una organizzazione imprenditoriale che, invece, non si può escludere nel caso dell’home restaurant: la prospettiva di convivialità definisce, infatti, il grosso dell’esperienza del social eating e la somma pur pagata dagli invitati ha il valore di un corrispettivo per la spesa sostenuta dall’host; lo stesso non succede nel caso dell’home restaurant, quando sono invece i guadagni la forza motrice di chi organizza un pranzo o una cena in casa propria. Per di più, i cooks italiani organizzano cene per gli sconosciuti soltanto in maniera saltuaria e senza una vera e propria periodicità: studi come quelli già citati sottolineano, infatti, come la maggior parte degli iscritti (oltre l’80%), da quando lo è, abbia organizzato solo da 1 a 3 eventi e che già a 4 cene organizzate la percentuale crolli a poco più del 10%. Non sembra esserci, insomma, nessuna minaccia reale al sistema della ristorazione e dell’ospitalità tradizionale.

DUE ESPERIENZE ITALIANE DI SOCIAL EATING

Come già si accennava, comunque, l’idea stessa di social eating è cambiata nel tempo: le esperienze proposte dai cuochi agli gnammers o a chi usi qualsiasi altra piattaforma simile sono ormai diverse e molto più articolate rispetto al semplice sedersi a tavola in compagnia di sconosciuti. In qualche caso la cena è tematica o a sostegno di una particolare causa.

Due esperimenti interessanti sono in questo senso quelli di “Comehome” e “Piacere, Milano”. Presentata per la prima volta durante il Mashable Social Media Day Italia 2018, la prima è una startup che si propone da link tra chi vuole organizzare un evento in casa propria e chi vuole vivere un’esperienza nuova, diversa e in parte più genuina rispetto alla semplice cena fuori o al semplice aperitivo. Nel caso di Piacere, Milano si trattava, invece, di un esperimento di social dining tarato su EXPO Milano 2015: durante i mesi dell’Esposizione Universale e nell’ambito dei tanti eventi collaterali a questa, i cittadini milanesi, iscrivendosi a un’apposita piattaforma, potevano trasformarsi in host e invitare in casa propria i tanti turisti giunti in città. Oltre che un momento conviviale era «un’occasione per condividere la città con chi ancora deve imparare a conoscerla – sottolineava allora in un’intervista ai nostri microfoni, Marcella Volpe co-fondatrice dell’agenzia Clinc, da cui nacque l’idea – e un vero e proprio progetto di narrazione della città. Approfittando del grande afflusso di turisti, infatti, si può raccontare una Milano diversa da quelle delle guide turistiche tradizionali: la Milano descritta dagli host di Piacere, Milano è la loro città personale, intima e segreta e di solito non è quella monumentale o molto nota e conosciuta. Un esempio? Il quartiere Bovisa: pochi sanno che è la prima Cinecittà italiana».

Dal mangiare insieme al conoscere insieme, e meglio, il volto più genuino di una città insomma il passo è breve. Nonostante, però, il social eating non sembra essere ancora una pratica a prova di turisti: solo il 5% di chi viene nelle città italiane, infatti, cerca cene e pranzi sociali e tra sconosciuti, con russi e americani che guidano la classifica di visitatori più propensi a vivere like a local. Che si dimostri, però, una possibile direttrice di sviluppo, più che una criticità del social eating?

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