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La strategia social di Trump gli ha davvero garantito la vittoria?

La strategia social di Trump: degli studi e un'analisi

Come è stata impostata la strategia social di Trump durante la campagna elettorale del 2016? È stata davvero l’elemento che gli ha garantito la vittoria?

La sua è stata davvero una vittoria ottenuta grazie a Facebook? E, soprattutto, la strategia social di Trump è destinata, come si dice, a cambiare per sempre lo stile della comunicazione presidenziale? La risposta a domande come queste, che hanno animato la campagna elettorale americana del 2016, vive al perfetto incrocio tra i precetti della comunicazione politica e quelli di una buona digital strategy.

Trump: una campagna elettorale low cost?

Un dato, infatti, sembra aver sorpreso di più commentatori e chiunque abbia seguito l’anno e mezzo che ha preceduto l’appuntamento degli americani con le urne: quanto hanno speso in pubblicità i candidati presidenti. Contro qualsiasi previsione, quella di Hillary Clinton è stata una campagna elettorale cinque volte più costosa di quella di Trump: la candidata democratica, infatti, avrebbe speso 96.4 milioni di dollari in attività pubblicitarie, contro i 17.3 milioni dell’avversario repubblicano. Prima di saltare alla conclusione che quello in pubblicità non sia più un investimento remunerativo, dal momento che non sposta voti, vale la pena considerare però la spesa – di certo più cospicua – della parte repubblicana finalizzata a ottenere una presenza digitale chiara, forte, coinvolgente.

Facebook e co. hanno davvero permesso la vittoria di Donald Trump?

Se Facebook ha permesso la vittoria di Trump, insomma, non è certo per colpa di fake news, omofilia, hate speech . Nonostante bufale, notizie non verificate, discorso dell’odio siano stati gli osservati speciali di questa campagna elettorale – tanto da costringere Mark Zuckerberg a ribadire il costante impegno di Facebook contro il dilagare di post-verità e fatti alternativi e la completa estraneità del suo social a meccanismi di manipolazione del voto – non si può certo attribuire a fenomeni social come questi un risultato elettorale che ha di fatto stravolto qualsiasi sondaggio. È stata, insomma, l’eccellente strategia social di Donald Trump – e forse nient’altro – ad assicurare la vittoria repubblicana.

I want to share some thoughts on Facebook and the election.Our goal is to give every person a voice. We believe deeply…

Posted by Mark Zuckerberg on Saturday, November 12, 2016

A descriverla ci ha provato, tra gli altri, un articolo come “Here’s how Facebook actually won Trump the presidency”. Più ancora di quella di Obama – nel 2008 prima e nel 2012 poi – quella del candidato repubblicano è stata veramente una strategia digital first, la prova definitiva che anche gli ambienti digitali devono essere considerati ormai, e a ragione, earned media che più dei canali proprietari possono aiutare a raggiungere una fetta di pubblico in parte diversa dai propri elettori affezionati e dai seguaci della prima ora. Stare sui social, insomma, non ha solo aiutato Trump a raccogliere oltre 250milioni di dollari in fundraising. Fare social media monitoring ha permesso, per esempio, a Trump e il suo staff di conoscere meglio il proprio possibile elettorato e di scoprire soprattutto le issue prioritarie per questo: in altre parole – sostiene David Meerman Scott, marketer e ideatore del concetto di real time marketing – tramite piattaforme come Facebook, ecc. il candidato repubblicano e il suo team hanno di fatto creato delle buyer personas. Se c’è una cosa che sembra aver distinto di più la strategia di comunicazione dei due candidati alle presidenziali americane del 2016, del resto, è stato proprio il grado di specificità dei messaggi nei confronti di una determinata audience: Hillary Clinton si è sempre rivolta a tutti gli americani, di qualsiasi orientamento politico o etnia o ceto sociale (e lo ha fatto con slogan come “Stronger Together” o “I’m with her”, ndr), mentre Trump ha parlato solo alla media e alta borghesia bianca (con il famoso proclama del “Make America Great Again”), forse accentuando l’astio di una certa porzione di elettorato, ma di certo calibrando il suo stesso tono di voce per poter parlare alla fetta più ricettiva dell’elettorato. Mentre la parte democratica, insomma, ha mostrato durante questa tornata elettorale una certa «prudenza» – così si è espresso ancora l’esperto – ci sono molte cose che la strategia social di Donald Trump ha da insegnare a chi si occupa di comunicazione politica, tanto quanto ai brand che vogliono ottenere una buona presenza digitale.

Dai test al coinvolgimento della community: le lezioni della strategia social di Trump

Come l’importanza di fare dei test, per esempio. Durante il terzo dibattito presidenziale il team digitale di Trump preparò oltre 170mila versioni diverse degli stessi contenuti per i social: fu un «A/B test sotto steroidi» – come sostenne qualcuno dell’entourage repubblicano  ma anche nei giorni di normale campagna elettorale sono state preparate dalle 40mila alle 50mila varianti che differivano per formato, visual, testo e altri dettagli anche infinitesimali nel tentativo di capire cosa avesse più presa sulla fanbase del politico. È proprio questo, del resto, che ha permesso a Trump di sorpassare la Clinton anche quanto a engagement sui social, misurato in termini di like, commenti, condivisioni dei post.

strategia social Trump engagement

Fonte: CrowdBabble

Proprio lasciare che sia la fanbase ad amplificare i propri messaggi è, tra l’altro, la lezione più grande che la strategia social del neo-presidente può suggerire in questo senso: c’è chi ha provato a stimare il valore dell’esposizione mediatica gratuita ottenuta da Trump proprio attraverso retweet, condivisioni dei post ed è risultato superiore a tre miliardi di dollari in un solo anno. Più che con i suoi soli messaggi, in altre parole, Trump ha dominato le conversazioni digitali sapendo coinvolgere attivamente i propri follower . Lo si nota in particolare, se si prova a calcolare l’engagement dei post video e delle dirette Facebook di Trump. Non sono i numeri assoluti che contano: a ottobre 2016 sulla pagina Facebook di Hillary Clinton erano stati pubblicati 302 post di questo tipo contro i 327 di Trump. E la candidata democratica, dal canto suo, ha dimostrato di avere una video strategy particolarmente differenziata e, a tratti, sperimentale (con addirittura una sorta di customer service pensato per rispondere alle principali domande degli elettori, ndr). Sono le performance relative alle condivisioni che fanno pensare, però, a una maggiore coinvolgimento della community di Trump: che si trattasse di dirette video o di video native i suoi risultati hanno sempre sorpassato quelli dell’avversaria.

strategia social Trump engagement video

video live trump

Un linguaggio semplice, emotivo, non politico: così Trump ha vinto sui social…

A proposito di scelte strategiche, comunque, anche una certa ricerca linguistica è importante se l’obiettivo, come si accennava, è arrivare di più e meglio ai propri possibili elettori (un altro dato interessante, del resto, è proprio che il 70% dei follower sono stati anche elettori del candidato democratico, ndr). Che termini ha utilizzato di più Trump nei post sui social? È la domanda che si è posto uno studio retrospettivo dal titolo, significativo, “I.You.Great.Trump”: tra i dieci termini più utilizzati dal presidente americano buona parte sono autoreferenziali e tutti delineano un universo semantico antitetico, fatto di «vincitori» contro oppositori politici «falliti».

strategia social Trump termini utilizzati

Fonte: Politico

I toni fortemente polemici, a tratti politicamente scorretti e irrispettosi della normale competizione politica, del resto, insieme a un linguaggio molto semplice e viscerale quasi, hanno contraddistinto tutto lo stile comunicativo del candidato repubblicano al soglio presidenziale. E sono stati forse alla base del suo stesso successo. Che si trattasse di insinuare il dubbio sul diretto competitor o di fare paragoni diretti con l’amministrazione uscente (rispettivamente nel caso dello scandalo delle mail di Hillary Clinton e del fratello di Obama che avrebbe dichiarato di volerlo votare, due dei tweet più famosi di Trump, ndr), infatti, il non usare mezzi termini è diventata di fatto una costante dello stile di Trump.

Ciò non solo gli ha permesso di puntare direttamente alla componente emotiva della campagna elettorale, ma ha fatto in modo che tutta la stessa strategia social di Donald Trump apparisse di una certa personalità. In altre parole? La vittoria di Trump è dipesa, in qualche misura, anche dalla capacità del politico di mostrarsi autentico, attraverso i suoi messaggi sui social. Nessuna virata di rotta, nessun tentativo di parlare anche agli indecisi, soprattutto nessuna volontà di mostrarsi come un politico educato. Chi è più esperto in considerazioni politiche ha fatto notare, proprio in questo senso, che la ragione principale è da ricercare semplicemente nel fatto che Trump non è un politico: è prima di tutto un imprenditore e un uomo dei media e, in quanto tale, sa benissimo cosa catalizza l’attenzione più di altro. Sebbene altrettanto ben confezionata e ben pensata, insomma, la strategia digitale della Clinton è apparsa a tratti piatta e noiosa, incapace di far trapelare la personalità della candidata, quasi da robot, soprattutto in considerazione del fatto che, proprio nello stesso momento, il diretto avversario politico ne stava approfittando per fare personal branding .

…e ha saputo sfruttare la catena mediatica

La strategia social di Trump suggerisce, tra l’altro, l’importanza del saper stare a monte della cosiddetta media logic, ossia della catena mediatica. Non c’entra soltanto la costante attenzione che anche i media tradizionali come TV e giornali riservano ormai a quanto accade sui social, per cui ogni tweet controverso, ogni post al vetriolo, ogni querelle tra account ufficiali di candidati e politici diventa sempre più spesso oggetto di notizia. Un peso fondamentale lo ha avuto il rapporto complesso del repubblicano con il mondo dei media, ripetutamente accusato di operare su di lui una copertura mediatica sfavorevole e largamente basata su fatti alternativi, appunto. Tanto hanno contato, però, anche una quasi perfetta capacità di spin doctoring, quella di intercettare gli argomenti più caldi del momento, i temi sensibili e che avrebbero potuto orientare il dibattito pubblico e di inserirsi tramite questi nel flusso delle informazioni. Anche la velocità e la capacità di esserci e far sentire la propria voce in tempo reale si possono rivelare fondamentali allora in questo senso: sostiene ancora David Meerman Scott, così, che Trump e i suoi tweet a qualsiasi ora del giorno e della notte sono l’incarnazione perfetta della «real time communication». Soprattutto, il saper giocare in certa misura di sensazionalismo, con storie dall’alto human interest e che risultassero per natura controverse e provocatorie (la costruzione del muro al confine col Messico, l’abolizione dell’Obama Care, eccetera, ndr), può aver giovato al grande seguito di Donald Trump.

Coerenza è, insomma, la lezione più grande della strategia social (e non solo) del neo-presidente e se solo il tempo dimostrerà se sia stato in grado o meno di rivoluzionare la comunicazione politica, qualcosa lo ha già confermato: non sempre serve investire molto, serve saper investire bene.

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