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Perché ci si sente a casa utilizzando lo smartphone (e non è sempre un bene)

Sugli smartphone ci si sente a casa: lo studio

Degli antropologi della UCL hanno paragonato i cellulari a una casa che, proprio come le lumache, le persone ormai si portano sempre dietro. Questo senso di "familiarità" deriva da quanto tempo si trascorre ogni giorno utilizzandoli e dalle attività compiute tramite questi device.

Non sono più percepiti solo come semplici device utili a compiere le più svariate attività: ormai sugli smartphone ci si sente a casa. È la conclusione a cui è giunto uno studio condotto dalla UCL, i cui risultati sono stati condivisi tra gli altri da The Guardian, che si è spinto a definire gli umani come «lumache che si portano dietro, in tasca, la propria casa».

Che gli ambienti digitali e gli strumenti tecnologici che permettono di accedervi non siano più da pensare tanto come un plus nella quotidianità delle persone o degli oggetti ludici, quanto come “luoghi” da frequentare – e in effetti frequentatiogni giorno, del resto, è ormai noto da tempo.

Quello che gli antropologi della UCL hanno notato per la prima volta è invece che i cellulari sono, sia per quanto tempo li si utilizza e sia per gli innumerevoli scopi a cui lo si fa, forse il primo oggetto candidato a competere con le mura domestiche – ma anche con gli ambienti di lavoro, quelli più tradizionali almeno – per senso di familiarità percepito e per come si sviluppa una sorta di consuetudine a muoversi al loro interno.

Sugli smartphone ci si sente a casa anche perché sono un mezzo per mantenere vivi gli affetti

Sugli smartphone ci si sente a casa, comunque, soprattutto perché permettono di restare in contatto con i propri affetti – o con i propri «congiunti», per usare un termine in voga in tempi lockdown e misure di contenimento del contagio – indipendentemente da dove ci si trovi e da dove si trovino questi ultimi.

Per molti partecipanti allo studio infatti una sola app, o meglio una sola classe di app, rappresenta «il cuore dello smartphone», ossia meno metaforicamente ciò che di irrinunciabile hanno i telefoni cellulari: quella delle app di messaggistica istantanea. Grazie a WhatsApp, Telegram, ma anche LINE, WeChat e altri servizi a diffusione più regionale infatti partner lontani riescono a vivere la propria storia anche a distanza, i migranti si riconnettono con le proprie famiglie, genitori orgogliosi condividono con la famiglia allargata o con gruppi di altri mamme e papà i progressi dei propri figli (qualche volta con ritmi ossessivi, tanto che chi si occupa di bambini sul web ha spesso sottolineato il pericolo sharenting ), nonni sempre più social vedono crescere i propri nipoti e mai tutto ciò è stato vero come in quest’anno di pandemia e di rapporti interpersonali dal vivo significativamente ridotti.

La familiarità con gli ambienti digitali mette a rischio la prossimità?

Il risvolto della medaglia è secondo gli esperti la «morte della prossimità». È possibile, infatti, che «nel bel mezzo di una cena, una riunione o qualsiasi altra attività condivisa la persona con cui ci troviamo scompaia perché “è andata a casa” sul suo smartphone». A chi non è mai capitato di parlare con qualcuno distratto dalle continue notifiche sullo smartphone o per esempio di ritrovarsi a trascorrere quella che avrebbe dovuto essere una serata con gli amici vedendo ognuno scorrere ossessivamente i propri feed social? Come se l’abitudine a vivere “ onlife ” e senza soluzione di continuità cioè tra quello che si fa online e quello che si fa offline di fatto renda tutti «emotivamente più soli, anche quando si è fisicamente insieme» e bisognosi di cercare rifugio “domestico” negli smartphone.

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Quella degli antropologi della UCL è una possibile lettura alternativa alla tanto discussa – e quasi sempre con tanto allarmismo – dipendenza da smartphone o nomofobia .

Si potrebbe essere costantemente preoccupati che il proprio cellulare sia abbastanza carico non tanto per la paura di “perdersi qualcosa” o alla ricerca ansiosa di like, commenti e ricondivisioni ai propri post sui social per il ruolo confermativo che gli stessi giocano, ma perché appunto ormai sugli smartphone ci si sente a casa.

L’aspetto forse più interessante è che, tra gli utenti dei nove paesi UE ed extra UE del campione, gli studiosi si sono focalizzati soprattutto su una fascia d’età di adulti più in là con gli anni (il titolo completo dello studio è, peraltro, proprio “The Global Smartphone. Beyond a Youth Technology”). È un tentativo di dimostrare che smartphone e altri device digitali sono una sorta di seconda casa non solo per i più giovani, nativi digitali, ma anche per chi è nato e ha vissuto buona parte della propria esistenza in un mondo decisamente più “analogico”. Come a dire che una nuova, più pertinente, narrativa per il digitale debba sottrarlo a un abusato discorso anagrafico.

Online – e ancora una volta il boom di traffico Internet fin dai primi giorni di emergenza sanitaria e l’aumento costante di tempo trascorso online per tutto il 2020 lo dimostrano – si compie ormai un range così vasto di azioni che va dal creare o rafforzare e mantenere in vita legami interpersonali al prendersi cura della propria salute grazie alle soluzioni di eHealth e all’esercitare i propri diritti democratici e politici, al punto che sarebbe difficile pensare gli ambienti digitali frequentati solo dai giovani o solo per svago e gli scopi più ludici.

Se è (anche) digitale, la casa non è più un rifugio

Non mancano risvolti negativi nel fatto che sugli smartphone ci si sente a casa. Secondo gli studiosi, più si tende a considerare gli ambienti digitali come una naturale “estensione” di casa, ufficio, scuola e via di questo passo e più è difficile fare una distinzione netta tra lavoro e tempo libero per esempio, cosa che potrebbe portare alle lunghe e all’estremo al burnout del lavoratore. Anche i bambini potrebbero sentire di avere meno vie di fuga” dal cyberbullo o da innumerevoli altre situazioni come grooming , truffe, ecc. che li mettono in pericolo in Rete.

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