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Trash Challenge: quando la sfida social fa bene al pianeta

La Trash Challenge arriva dai social: chi partecipa deve armarsi di rastrello e paletta per il bene del pianeta. Ecco come funziona.
Questa volta non ci sono pose da manichino da imitare, né pinte di birra da mandare giù in un solo sorso e – per fortuna – i partecipanti possono risparmiarsi anche gesti potenzialmente letali come farsi un selfie estremo, ingoiare una capsula di detersivo o obbedire alle istruzioni di un curatore (come successo per la Blue Whale Challenge e, più di recente, per la Momo Challenge). Il fine della Trash Challenge, infatti, è virtuoso: ripulire il mondo dai tanti, troppi, rifiuti che produciamo ogni giorno e che spesso non smaltiamo correttamente mettendo a serio rischio la salute del pianeta.
Come funziona e a cosa serve la Trash Challenge
A guardarla da vicino, insomma, la Trash Challenge sembra una naturale figlia del suo tempo. Sono giorni in cui mentre certi leader mondiali si ostinano a ignorare il cambiamento climatico, una ragazza svedese di sedici anni ricorda al mondo che non esiste e un pianeta B e che, per questo, è diritto e dovere di tutti scioperare per il futuro della Terra. E, ancora, sono giorni di presa consapevolezza anche per le aziende che serve un impegno concreto per un mondo plastic free.
La Trash Challenge sfrutta, allora, dinamiche tipiche delle rete sociali e gli ambienti 2.0 – viralità, tag reciproco tra utenti, attivismo da hashtag – per parlare direttamente ai più giovani e riuscire a coinvolgerli in maniera efficace. Il meccanismo è, infatti, esattamente quello di qualsiasi altra sfida social: si compie il gesto, meglio se in diretta su Facebook, su Instagram o su YouTube; si postano le prove che servono a far vedere agli altri di aver superato la sfida e si invitano amici e conoscenti a fare lo stesso. Di diverso, rispetto alle altre sfide social che nel tempo sono state bollate come stupide quando non addirittura pericolose, c’è che il gesto in questione nella Trash Challenge è scegliere un posto sommerso dai rifiuti, armarsi di scope, palette e tutto l’occorrente e ripulirlo. Alla fine? Postando gli scatti del prima e dopo non ci si potrà vantare solo con i propri follower di aver superato la sfida, e invitarli a fare altrettanto, ma si avrà fatto concretamente del bene all’ambiente.
Chi e perché ha partecipato alla Trash Challenge
In pochi giorni, così, solo su Instagram sono stati condivisi quasi 31mila post dedicati alla Trash Challenge. C’è chi ha scelto di liberare da plastica e altri rifiuti i parchi in città e le strade e le piazze dei sobborghi.
Le spiagge, dalla California ai paradisi tropicali, sono state però le vere protagoniste di questa sfida per ripulire il mondo: non di rado sono le vittime preferite dell’inciviltà di un turismo di massa, incapace di rispettare quelle stesse meraviglie da cui è attratto. Uno degli allarmi principali lanciato da istituzioni e ONG riguarda, tra l’altro, proprio la quantità di plastiche e microplastiche nei mari che potrebbe triplicare entro il 2025 secondo delle stime.
Mentre si aspetta che anche gli utenti italiani si sfidino a colpi di rastrello e paletta per ripulire i luoghi comuni dalla spazzatura abbandonata, i più attenti hanno fatto notare che la Trash Challenge non è nuova veramente. Come sottolinea la CNN, infatti, l’ hashtag #TrashTag, usato dai partecipanti per sfidarsi a vicenda, era in origine un hashtag branded, lanciato da un’azienda di prodotti da campeggio e per le attività outdoor con un obiettivo comunque simile a quello della Trash Challenge: sensibilizzare i propri clienti al rispetto dell’ambiente e promuovere comportamenti virtuosi in questo senso.
Dalle aziende agli internauti, insomma, la sfida del rispetto ambientale sembra coinvolgere davvero tutti. Chiedetelo all’esploratore e attivista italiano Alex Bellini che, prima ancora che in Rete si giocasse a taggarsi a vicenda per ripulire il mondo dai rifiuti prodotti, ha deciso di remare dal Gange al Great Pacific Garbage Path (l’isola di plastica che galleggia nell’oceano Pacifico), proprio lungo il percorso che la plastica compie prima di accumularsi in mare.
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