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Trend di mercato: quando i prodotti islamici fanno tendenza

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Tra i trend di mercato del 2016 anche i prodotti islamici. Secondo i musulmani avrebbero speso 2mila miliardi tra cibo vestiario.

Le parole “arabo“, “musulmano” o “islamico” (spesso usate come sinonimi, in modo errato) riempiono da anni le colonne dei quotidiani e i titoli dei telegiornali, per non parlare delle chiacchiere da bar che sono andate via via aumentando. Superando la diffidenza figlia del nostro tempo, è possibile intuire come quella del mondo musulmano – e dei prodotti islamici, nello specifico – sia una sfida da cogliere per il mondo occidentale. Invece di chiudersi in un riciclo di valori, comprendere le culture altrui è sintomo di intelligenza oltre che di lungimiranza, anche perché le differenze culturali hanno impatto sul business e, per questo motivo, possono divenire dei veri e propri trend di mercato. Ne sa qualcosa Donna Karan, per esempio, che nel 2015 ha lanciato la collezione Ramadan, con abiti senza scollature profonde e velo a richiesta che rispetta i dettami del Corano per le donne islamiche. La moda legata ai prodotti islamici vale nel 2016 ben 266 miliardi di euro in tutto il mondo, per comprendere la portata del fenomeno.

Trend di mercato e prodotti islamici: alcuni numeri

Secondo uno studio commissionato dal Governo di Dubai alla Thomson Reuters, sono circa 2mila i miliardi spesi dai musulmani nel mondo tra cibo e vestiario, una cifra che è destinata a raddoppiare nel 2019. Il settore della moda è seguito, subito dopo, dal turismo (140 miliardi) e dai prodotti islamici per la cosmesi (72 miliardi). La spesa maggiore della popolazione musulmana è quella per gli alimenti Halal (1.292 miliardi spesi che si prevede diventino 2.536 nel 2019), cioè realizzato secondo i dettami della Sharia. Per i credenti dell’Islam comprare questi prodotti è un obbligo, il che significa che per questi beni c’è un mercato grande quanto un quarto della popolazione mondiale. Non solo: secondo il report di Euromonitor, entro il 2030 i consumatori di religione musulmana peseranno per il 26% dei consumi mondiali. Numeri che fanno decisamente impallidire il nostro saturo mercato europeo.

Non a caso, già alcuni anni fa, il Governo ha sottoscritto una convenzione interministeriale promossa dalla Comunità religiosa islamica (Coreis) per la creazione del marchio ‘Halal Italia’, per certificare le produzioni made in Italy dei settori agro-alimentari, cosmetico e farmaceutico destinati ai mercati dei Paesi islamici.  Una mossa che apre la strada e regolamenta un mercato quasi esclusivo delle aziende straniere e su cui anche le imprese italiane voglio arrivare per estendere maggiormente, appunto, il made in Italy .

A proposito di numeri, secondo uno studio di Unioncamere nel 2016 gli immigrati contribuiscono al PIL per il 12,1%, e di questi circa un terzo è musulmano. Tradotto: un mercato di quasi 60 miliardi di euro. Cifre che si avvicinano alle stime elaborate per la sola Lombardia dalla Camera di Commercio di Milano, secondo cui il ‘giro d’affari’ della comunità islamica nella regione sarebbe di 10 miliardi di euro, il 3% circa del prodotto interno lordo regionale.

Numeri persino prudenti perché se da un lato, secondo il dossier Caritas-Migrantes 2010, gli immigrati di fede islamica sono il 32,2% del totale, i dati sulle imprese individuali gestite da cittadini extracomunitari registrati dall’Unione delle Camere di Commercio offrono uno spunto ulteriore: considerati infatti i primi 40 paesi per numero di imprenditori (che rappresentano il 96,25% del totale), il 67,25% di questi proviene da paesi a maggioranza musulmana, la maggior parte originaria del Marocco, con 50,765 titolari di imprese.

Parlando all’ANSA Sharif Lorenzini, Presidente della sezione italiana di Halal International Autority (Hia), (unico organismo riconosciuto per la certificazione di qualità dei prodotti secondo gli standard islamic, ndr) ha spiegato che «l’Italia ha tutte le carte in regola per diventare il Paese leader nelle esportazioni verso il mondo islamico e noi vogliamo offrire a istituzioni e imprese tutto il supporto perché questo accada. Stiamo parlando di un giro d’affari da tremila miliardi l’anno, in crescita di circa il 15% ogni anno tra i due miliardi di musulmani nel mondo». 

Per aprire le porte a questo potenziale e, di conseguenza, a nuovi trend di mercato le imprese italiane di ogni tipo, dal cibo ai cosmetici, fino all’abbigliamento, devono produrre secondo standard previsti dalla Sharia, cioè dalla legge islamica che stabilisce cosa è ‘Halal’, quindi ammesso al consumo da parte di un musulmano, e cosa è ‘Haram’, ovvero proibito (ad esempio suino e alcol). E le imprese italiane sarebbero agevolate in questo processo grazie a standard di qualità, specialmente nel cibo e nella cosmesi. Nei 57 Stati islamici, evidenzia Lorenzini, «possono entrare solo prodotti islamici Halal: per questo da quando siamo in Italia, da tre anni, il mondo islamico ha trovato per la prima volta un interlocutore e le imprese italiane hanno cominciato ad aprirsi a nuove opportunità: se tutte fossero certificate Halal in 18 mesi l’Italia uscirebbe dalla crisi»

Sono proiezioni forse troppo ottimistiche, ma un dato è certo: quello dei prodotti islamici resta un trend di mercato da cogliere necessariamente per un Paese come l’Italia che vive soprattutto di esportazioni. Il mercato europeo è saturo e la concorrenza è fortissima, ma l’Italia sarebbe una nazione leader per quanto riguarda la certificazione di prodotti alimentari, soprattuto di alta qualità.

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