Home / Macroambiente / Uno sguardo all’Italia delle professioni digitali, tra ritardi e bisogni di mercato

Uno sguardo all'Italia delle professioni digitali, tra ritardi e bisogni di mercato

Professioni digitali: la situazione in Italia tra ritardi e bisogni di mercato

In Italia c’è sempre maggiore richiesta di professioni digitali, ma l'offerta non è al passo con la domanda. Quali i motivi?

Le aziende cercano professionisti ICT: a confermarlo sono dei dati di ‘InfoJob’ secondo cui oltre il 16% degli annunci di lavoro ha riguardato, nel primo semestre del 2017, le professioni digitali. La percentuale è in crescita di oltre il 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e le professioni “2.0” vengono immediatamente dopo le consulenze manageriali quanto a vacancy e offerte di lavoro.

L’ennesima dimostrazione insomma che, in un mercato del lavoro in profonda trasformazione come quello di questi anni, professionisti in grado di comprendere le logiche degli ambienti digitali, appositamente formati per farlo e con skill tecniche piuttosto avanzate saranno quello di cui le aziende avranno sempre più bisogno. Non a caso, secondo le previsioni dell’Osservatorio di Antal Italy sul mercato del lavoro, in un futuro prossimo il numero di lavoratori dell’ICT potrebbe crescere di oltre il 56%.

Studi come quello di ‘InfoJob’ proseguono persino nell’individuare quali regioni investono di più in nuove professioni digitali: al momento il primato sarebbe della Lombardia (è da lì che arriva oltre il 56% di offerte di lavoro), seguita sul podio da Lazio (17,3%) e Piemonte (6.1%).

Professioni digitali: quali sono le più ricercate sul mercato?

Meno semplice è, comunque, rispondere alla domanda sulle professioni digitali più ricercate. Un’infografica di ‘Saxoprint’ sul mercato del lavoro nell’ICT nel 2015 mostrava chiaramente come tra le figure più richieste, tanto da coprire quasi la metà (il 46,7% per l’esattezza) di tutte le offerte di lavoro da parte delle aziende, ci fosse quella del social media manager. Molti brand di tutti i settori cominciarono, infatti, a comprendere allora l’importanza di una presenza sui social che fosse più coerente possibile con la propria immagine e la propria proposta di valore e che solo un professionista avrebbe potuto assicurare loro.

Allora le aziende cercavano anche, comunque, responsabili di digital marketing (per il 19,5% delle richieste), esperti di seo e sem (15,5%), sviluppatori, content manager e designer.

Oggi il panorama sembra in parte cambiato: ancora secondo Antal Italy, tra le professioni digitali più ricercate c’è infatti quella dello specialista IoT: dagli assistenti digitali alle smart home, infatti, il mercato degli oggetti connessi varrebbe in Italia giù quasi tre miliardi di euro e potrebbe registrare una crescita non indifferente. Esperti che prendano in carico ogni aspetto di questa filiera, così, sono indispensabili per le aziende e non sorprende pensare che possano essere, tra i professionisti dell’ICT, anche quelli meglio pagati: nel 2018 le retribuzioni annue lorde potrebbero andare dai 25/30mila euro per gli “entry” ai 70 mila euro per le posizioni manageriali.

Anche gli esperti di IT security sarebbero tra le professioni più ricercate del momento. Non c’entrerebbe solo una maggiore attenzione delle aziende ai temi della cybersecurity: anche le nuove imposizioni comunitarie in materia di privacy, per esempio, renderebbero indispensabile la presenza, all’interno dell’azienda, di un esperto sicurezza digitale. In questo caso, tra l’altro, la retribuzione lorda per i top manager potrebbe arrivare addirittura ai 120 mila euro annui.

Le skill indispensabili e la cassetta degli attrezzi di un lavoratore ICT

Un profilo “tipo” del lavoratore digitale sembra difficile da tracciare: si pensi solo al fatto che sviluppatori, designer, copywriter, content curator, esperti SEO/SEM, digital marketing manager, web analyst, ecommerce manager rientrano tutti, con gli stessi diritti, nell’ampissima categoria delle professioni digitali. Si può dire però, come fanno ancora da ‘Info Jobs’, che la maggior parte di chi cerca lavoro nell’ICT (il 42,8%) ha tra i 36 e 45 anni, è in possesso di una laurea o di un diploma di maturità (la percentuale varia tra il 44% nel primo caso e il 43.8% nel secondo) e ha almeno cinque anni di esperienza pregressa nel settore (è vero per il 27,9% di loro).

C’è soprattutto una “cassetta degli attrezzi” che chi vuole lavorare nel digitale non può non possedere: dentro c’è, per esempio, una perfetta padronanza degli ambienti social, la conoscenza dei principi fondamentali di mobile, content ed email marketing e degli strumenti di analisi, oltre che una spiccata capacità di team working. La natura dinamica del settore, però, richiede anche numerose soft skill: una passione spontanea verso gli ambienti digitali per esempio e, insieme, spiccate capacità di pianificazione a lungo termine e ragionamento analitico, cui sappia seguire però un approccio creativo nell’esecuzione. Se si sogna una carriera nel digitale, poi, occorre prepararsi alla necessità di una formazione continua dal momento che ogni giorno vengono aggiornati algoritmi, implementate funzioni, lanciati nuovi tool e così via.

Per preparare chi voglia lavorare nelle professioni digitali ad affrontare colloqui e processi di recruiting, comunque, da ‘Saxoprint’ hanno pensato a tre consigli essenziali. Per far colpo sulle HR dell’azienda per cui si vorrebbe lavorare meglio utilizzare per la propria formazione i canali e le certificazioni ufficiali (come quelle offerte da Google, ndr). Indispensabile, poi, seguire i maggiori influencer di settore e fare tesoro dei loro consigli e delle loro esperienze. Per finire, mai trascurare i blog specializzati: sono lo strumento migliore per rimanere sempre aggiornati e inserirsi in un network professionale.

Le professioni digitali in Italia, tra ritardi e competenze incoerenti

Se cospicua è insomma anche in Italia la ricerca di professionisti del digitale, purtroppo non si può dire lo stesso quanto alla disponibilità di lavoratori che abbiano le skill giuste per ricoprire i ruoli in questione. Nel 2016 secondo ‘Adecco’, per esempio, almeno il 22% delle posizioni aperte nel campo delle nuove professioni digitali rimaneva vacante proprio per la mancanza di formazione, curriculum ed esperienze adeguate al ruolo. Quasi contemporaneamente la Commissione Europea aveva stimato che, entro il 2020, almeno 900mila posti di lavoro nel campo delle nuove professioni digitali sarebbero rimasti scoperti – contro i 275mila già vuoti nel 2012 – proprio per la mancanza di professionisti adeguatamente formati e con le giuste esperienze in materia.

Secondo l’Osservatorio delle Competenze Digitali 2017, invece, nel 2016 si sarebbero creati almeno 28mila posti di lavoro nel mondo dell’ICT, numero che potrebbe facilmente raddoppiare (fino a 57mila) entro il 2018. L’Osservatorio, tra l’altro, ha sottolineato che una sempre maggiore varietà di mansioni che a rigore non rientrerebbero tra le “professioni digitali” ha visto aumentare nel tempo lo Skill Digital Rate: per effetto della digital disruption, cioè, anche le professioni più tradizionali hanno avvertito un crescente bisogno di competenze digitali, tanto che, se lo Skill Digital Rate appunto è dell’80% per i professionisti dell’ICT, anche per le professioni meno legate all’information tecnology si aggira tra il 55% e il 64%. Si tratta di competenze che, non sempre, i lavoratori italiani possiedono: in ritardo su molti “temi” del digitale, nel caso delle professioni digitali in Italia si aggiunge un problema di skill mismatch, ovvero di mancato allineamento tra le competenze e i livelli di istruzione che servirebbero al mercato e quelli di cui invece c’è offerta.

Solo per fare un esempio? Ancora secondo l’Osservatorio, in riferimento a questo settore specifico, il mercato avrebbe bisogno oggi del 62% di laureati e del 38% di diplomati, mentre l’offerta è completamente invertita con un numero di diplomati in eccesso rispetto a chi ha frequentato un corso di studio idoneo. Non è sbagliato credere, allora, che il  ritardo italiano nel mercato delle nuove professioni digitali sia da attribuire, almeno, in parte alle carenze del sistema educativo nostrano. L’Università soprattutto non sembra stare al passo con i bisogni del mondo del lavoro: fino a qualche anno fa, fatte salve poche eccezioni a livello nazionale, mancavano addirittura corsi di laurea o programmi di formazione post-laurea che preparassero per esempio social media manager e community manager, figure indispensabili quando si guarda agli ambienti social e alla necessità dei brand di “vivere” al loro interno. Oggi corsi di questo tipo esistono, sono tra l’altro ben rodati e sono nati anche percorsi di formazione universitaria anche per quanto riguarda big data , analytics, cybersecurity, anche se il grande assente nei programmi formativi rimane il cloud.

Non è tanto, comunque, il tasso di iscrizione ai corsi di laurea in discipline STEM (cioè scienze, tecnologia, ingegneria e matematica, ndr), quanto il tasso di abbandono molto alto – circa il 60% secondo l’Osservatorio, cosa che fa sì che sia solo di poco superiore all’1% la percentuale di giovani tra i 20 e i 29 anni laureati in questo ambito, secondo la Relazione sui Progressi del settore Digitale in Europa-EDPR 2016 – che preoccupa di più quando si guarda al futuro delle professioni digitali.

Così l’Italia prova a valorizzare le professioni dell’ICT

Richiestissime dal mercato, insomma, ma non altrettanto valorizzate nel campo della formazione, le nuove occupazioni digitali richiederebbero uno sforzo d’investimento. In questa direzione sembrano cominciare a muoversi sia le istituzioni, sia i soggetti privati più sensibili in materia.

Dal 2015 esiste, per esempio, la Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali: fa parte di un progetto più ampio della Commissione Europea per lo sviluppo e l’integrazione delle professioni digitali e ha come obiettivo non solo quello di accrescere e migliorare le competenze degli specialisti dell’ICT, ma anche quelle di cittadini comuni, imprenditori, lavoratori impiegati anche in altri settori e dipendenti pubblici. A questo si aggiunge il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, una serie di investimenti finalizzati al miglioramento delle infrastrutture per l’ICT nelle scuole pubbliche, la formazione degli insegnanti e l’aggiornamento dei programmi di studio scolastici con specifici slot dedicati allo sviluppo di e-skill.

Nello specifico, i 355 milioni del PSD serviranno a promuovere percorsi di formazione digitale già nelle scuole primarie – secondo gli esperti, del resto, ci sarebbero per esempio enormi benefici nell’insegnare il coding ai bambini piccolissimi, sia a livello tecnico-professionale che non – e l’introduzione di almeno 25 nuovi curricula digitali nelle scuole superiori, oltre che l’implementazione di programmi per l’alternanza scuola-lavoro, l’apertura di atelier creativi anche per i nuovi professionisti del digitale e una serie di corsi e percorsi di formazione universitaria dedicati al mondo dell’ICT e delle nuove frontiere imprenditoriali.

Proprio in materia di nuove forme dell’imprenditoria, merita di essere segnalato infine il Piano Imprenditoria 4.0 del Ministero dello Sviluppo Economico. Sulla base di questo l’Italia dovrebbe investire, entro il 2020, almeno 13 miliardi (per lo più di investimenti privati) in ricerca e sviluppo, dotandosi di 200mila studenti universitari e di 3mila manager specializzati nei settori della quarta rivoluzione industriale, di circa 1.400 dottori di ricerca in materia e di centri nazionali e qualificati per lo sviluppo di competenze digitali.

Altre notizie su:

© RIPRODUZIONE RISERVATA È vietata la ripubblicazione integrale dei contenuti

Resta aggiornato!

Iscriviti gratuitamente per essere informato su notizie e offerte esclusive su corsi, eventi, libri e strumenti di marketing.

loading
MOSTRA ALTRI