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Il visual journalism come antidoto alle bufale in rete

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Il visual journalism può salvare l’utente da fake news ed errori, soprattutto per tematiche come l'immigrazione. Ecco alcuni esempi

La salvezza è nei big data? Forse. Quello che è certo è che il giornalismo come lo conosciamo, stretto tra le sfide dell’online e di un’informazione che vive con i like, non basta più. I giornali non hanno bisogno di restyling ma di un vero e proprio rethinking, sostengono gli esperti, intendendo con questo concetto la necessità di ripensare al modo di fare giornalismo e all’essenza stessa della professione giornalistica.

La soluzione potrebbe arrivare dal visual journalism. Non si tratta, infatti, soltanto di dare forma visivamente gradevole alla mole di dati a disposizione delle redazioni, pratica ormai comune considerata la quantità di tool semplicissimi che permettono a chiunque di costruire infografiche, chart e mappe. Si tratta di mettere insieme le capacità del giornalista (trovare una storia e darle forma narrativa, su tutte) con quelle di un grafico che pensi all’immediatezza e alla fruibilità visiva di una storia, tanto più questa è complessa e poco ‘appetibile’ al grande pubblico.

I vantaggi del visual storytelling, del resto, sono molteplici: contenuti originali che si differenziano da quelli dei propri competitor , facilmente adattabili a piattaforme diverse e pensati per essere condivisi, dal lato dalla produzione; notizie costruite su misura che soddisfino i bisogni informativi del consumatore e lo facciano sentire al centro dell’industria dell’informazione.

Come spiegano Kris Krois e Matteo Moretti, due esperti di Visual Journalism dell’Università di Bolzano (dove dal 30 giugno al 2 luglio 2016 si terrà #VJSS2016, una summer school a tema, ndr), infatti, «le informazioni a volte sono troppo frammentate. Spesso non riusciamo a contestualizzare le notizie, anche per l’oggettiva difficoltà di alcune tematiche. Spiegarle in maniera accurata comporterebbe un investimento di soldi e tempo che pochi si possono permettere, in questo senso le visualizzazioni soccorrono i professionisti dei media, permettendo di dare maggior chiarezza e profondità alle informazioni. Il Visual Journalism, insomma, deve entrare nella cassetta degli attrezzi di ogni buon giornalista contemporaneo».

La cronaca più recente dimostra, del resto, che ci sono temi che più di altri si prestano a generare fake news, false credenze, disinformazione. L’emergenza migranti è uno di questi. Da mesi, infatti, si rincorrono sul web presunte notizie che hanno come protagonisti negativi gli immigrati sbarcati sulle coste italiane: dai celebri 40 euro al giorno che costerebbero al nostro governo, passando per il pericolo che siano veicolo di malattie infettive, il risultato è che le conversazioni sul tema siano dominate, dentro e fuori la rete, dall’intolleranza e dalla paura  e che, più in generale, siano il trionfo dell’ hate speech .

A poco servono i tool che aiutano a identificare le fake news dalle notizie verificabili come quello introdotto da Facebook, i numerosi tentativi di debunking a opera di singoli o persino di intere community che combattono le bufale per missione o gli strumenti per il fact-checking più innovativi messi a disposizione delle redazioni e non solo. L’unica soluzione sarebbe un’informazione corretta e in grado di alimentare un discorso pubblico basato su dati reali e contestualizzati, meglio se fatta con strumenti innovativi, in grado di parlare gli stessi linguaggi del target di riferimento.

Due case study tutti italiani danno il senso di ciò di cui si sta parlando.

Europadreaming è un progetto con cui lo stesso Matteo Moretti (vincitore, tra l’altro, del Data Journalism Award 2015, ndr) prova a raccontare l’emergenza migranti. Testi, immagini, video, interviste, infografiche, slideshow, mappe costruiscono il racconto multimediale delle nuove migrazioni verso l’Europa, inserendole in una cornice di riferimento che è quella dei principi costitutivi dell’Unione Europea.

#parliamonePiù smart, pensato per un target più giovane di frequentatori dei social network e per la condivisione è, invece, #parliamone. Noemi Biasetton ha radunato in un sito (nato come prova finale per la laurea in Design, ndr) i cliché più comuni a tema immigrazione, mettendoli a confronto con dati, statistiche, informazioni verificate, come quelle fornite da Open Migration e da Valigia Blu. Un’avvertenza per i naviganti? Su #parliamone non c’è spazio per gli elenchi, gli articoli condensati per punti, l’uso spregiudicato di gif: il sito aderisce al progetto #ioscrollo, come ironizza la creatrice, perché «il luogo comune si sgretola solo quando è messo a confronto con i dati e questi vengono contestualizzati».

Ma, si sa, i tempi dei social e della viralità non premiano sempre correttezza e precisione dell’informazione. Per questo ciò che di più interessante c’è in #parliamone è, forse, il modo in cui si è scelto di veicolare le notizie verificate a tema migranti. Noemi Biasetton ha chiesto, infatti, a sette tra i più conosciuti youtuber italiani di spiegare ai propri follower alcune importanti tematiche legate alle migrazioni. Si tratta di sfruttare la popolarità di questi personaggi e la credibilità di cui godono presso chi li segue costantemente e, insieme, di usare i loro canali tematici per sensibilizzare al tema delle migrazioni un ‘pubblico’ spesso alieno alle questioni di politica internazionale e per questo più facilmente vittima delle fake news o di un’informazione viziata. Il risultato? Sono video come quelli in cui Claudio Di Biagio di nonapritequestotubo (220.000 follower, ndr) spiega perché non è vero che tutti i migranti scappano dalla guerra oppure come quelli di Dellimellow che smonta il mito del “gli immigrati ci rubano il lavoro”.

Le scelte di regia e la grammatica dei contributi di #parliamone sono, insomma, le stesse che premiano la viralità su social e affini. Un uso in funzione d’ascolto della Rete fa il resto: «osservo le reazioni sui social media per misurare l’effetto dei video e capire cosa, nella mia comunicazione funziona e cosa no», ha spiegato infatti Noemi Biasetton a proposito dell’idea di base di #parliamone. «Fondamentale – ha proseguito – è riappropriarci degli spazi sulla rete che sono troppo spesso ostaggio di hater, fomentatori di odio e pregiudizio. La mia ambizione è coagulare attorno a questi video anche commenti positivi e promuovere un dibattito positivo e informato».

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