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Esiste e, se sì, di cosa è fatto un web per bambini?

Web per bambini: regole e consigli per genitori

Quello che frequentiamo ogni giorno non è, per molti versi, un web a prova di bambini. Focalizzarsi sui rischi che i minori corrono quando sono connessi non è, però, l'unica cosa che serve per rendere la Rete più sicura anche per i piccoli. Ne parliamo con degli addetti ai lavori.

Non c’è ragionamento su un web per bambini, un web capace di venire incontro cioè anche alle esigenze dei più piccoli e garantire loro esperienze costruttive, che non parta da un certo allarmismo sul cosiddetto screen time, ossia il tempo che i bambini passano davanti agli schermi di computer, tablet, smartphone. Già nel 2015, secondo uno studio Ofcom, questo risultava superiore a quello trascorso davanti allo schermo della vecchia televisione: oltre 15 ore settimanali, contro 13 ore e 36 minuti.

ed era un tempo da cui erano escluse attività come messaggiare o fare e ricevere chiamate.[/NOTA]

screen time bambini

Nel 2015, secondo delle stime, i bambini trascorrevano circa 15 ore alla settimana davanti allo schermo di un PC, un tablet o uno smartphone, superando così per la prima volta il tempo trascorso alla TV. Fonte: Ofcom

Nelle proprie linee guida su come proteggere i bambini online durante la pandemia da COVID-19, ad aprile 2020, UNICEF constatava che in molte regioni il tempo che bambini e ragazzi hanno trascorso connessi dall’inizio dell’emergenza coronavirus è aumentato mediamente del +50%, anche inevitabilmente per via di didattica a distanza e lezioni da seguire online.

I rischi che corrono online è la dimostrazione in atto che non può esistere un web per bambini?

Sono numeri che, letti da soli, non possono non sollevare il dubbio che molti tra adolescenti e preadolescenti vivano oggi un vero e proprio rapporto di dipendenza dalla Rete e dalle tecnologie.

Secondo il Pew Research Center oggi effettivamente oltre il 70% dei genitori americani sarebbe «in qualche misura» o «molto» preoccupato che i propri figli trascorrano troppo tempo in Rete.

genitori preoccupati che i bambini passino troppo tempo in Rete

Il (troppo) tempo passato connessi è stato fonte di preoccupazione per la maggior parte dei genitori durante l’ultimo anno. Fonte: Pew Research Center

È probabile però che per un nativo digitale categorie come online e offline siano più prive di senso di quanto non lo siano per un genitore millennials o, ancor di più, Boomers: non a caso gli addetti ai lavori hanno coniato in riferimento a come i primi vivono la propria vita in Rete l’aggettivo «onlife».

«Le esperienze che i bambini vivono grazie ai dispositivi digitali – ha spiegato la psicologa e presidente dell’associazione #UnitiinRete Federica Boniolo durante una puntata di Inside Talk dedicata alle insidie del web per bambini – non tolgono nulla ad altri tipi di esperienze: per la maggior parte dei bambini è normale [e fisiologico, ndr] passare da momenti in cui svolgono alcune attività grazie a un device ad altri in cui vanno al parco, giocano con altri bambini, fanno sport».

I genitori infatti temono che una volta scoperta la Rete i bambini possano non cercare più altri momenti, altri tipi di esperienze che esulino dal digitale, ma come ha proseguito l’esperta è possibile tranquillizzarli in questo senso.

Bambini e insidie della Rete: ruoli e responsabilità anche inconsapevoli degli adulti
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Ciò non significa non essere realisti e non tenere in considerazione il fatto che il digitale con i suoi strumenti ha assunto un peso sempre più consistente nelle vite dei giovanissimi e che è qui che gli stessi, sempre più spesso, vivono esperienze formative, intessono relazioni e via di questo questo passo. Da adulti responsabili è necessario, cioè, essere consapevoli dei pericoli che i più piccoli corrono online prima di provare a dare loro strumenti pratici per vivere (bene) in Rete.

È Kaspersky a individuare la classifica dei sette principali rischi informatici per i bambini: in cima ci sono, prevedibilmente, cyberbullismo e grooming ma dalla società non mancano di citare anche phishing e scamming, ossia la possibilità che i più piccoli siano vittime di diverse forme di frode online, né la possibilità che tramite i social soprattutto vengano raccolti e utilizzati a fini commerciali molte più informazioni e dati personali di quanto si immagini.

«Posti come questi non sono frutto di un progetto pedagogico o ludico o pensati per imparare. Sono ambienti di marketing spinto, in cui veniamo guidati alla pubblicazione di una serie di contenuti di carattere personale per poi ricevere in cambio pubblicità targettizzata ed è qualcosa che con l’educazione, il gioco, persino con l’imitazione che è uno dei canali attraverso cui i ragazzi imparano, non c’entra nulla».

È questa la risposta – che non lascia molto spazio ai dubbi – di Simone Cosimi, autore di “Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: chi li protegge?”, in un’intervista ai nostri microfoni, alla domanda focalizzata sul se il web come lo conosciamo sia un web per bambini o possa diventarlo.

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Davvero chi li gestisce non sa che i social sono pieni di bambini?

Sull’ultimo aspetto le big tech lavorano da tempo, spinte da interessi commerciali almeno quanto dall’aver avuto in questi anni gli occhi puntati addosso quando, in concomitanza con casi di cronaca particolarmente controversi, si è cercato di capire chi, quanto e perché dovesse essere considerato davvero responsabile della sicurezza dei bambini in Rete.

Il grande inganno dei social vietati agli under 13

Non è passato molto tempo da quando l’ennesima presunta challenge mortale sui social ha portato il Garante Privacy a bloccare TikTok in Italia, prima che dall’app cinese dei lip sync e dei balletti musicali si impegnassero a verificare meglio l’età dei propri iscritti e a rendere privati di default i profili under 16.

Quella del limite d’età per l’iscrizione è una vera e propria vexata quaestio per le piattaforme digitali. La maggior parte ha infatti policy che fissano a 13 anni l’età minima per l’iscrizione ai propri servizi: è una soglia scelta per convenzione, facendola derivare dalle previsioni del COPPA, la normativa americana di riferimento quando si tratta di bambini e servizi della società dell’informazione. A questa si è aggiunta più di recente quella dei 16 anni, individuata come critica dal GDPR europeo perché cessi l’obbligo di un consenso al trattamento dei dati personali “aggravato” e cioè prestato da chi eserciti la responsabilità genitoriale.

Se basta frequentare anche sporadicamente i social network per accorgersi di essere in compagnia di moltissimi bambini di età inferiore ai 13 anni, spesso iscritti con falso nome o semplicemente fornendo un anno di nascita diverso da quello reale, una ricerca inglese di qualche tempo fa ha effettivamente confermato che tre quarti dei bambini tra i 10 e i 12 anni hanno almeno un account social. Raramente, cioè, piattaforme e loro gestori riescono a far rispettare davvero il limite d’iscrizione agli under 13: forse per non aver mai adottato le tanto discusse real name policy, ossia per non aver vincolato l’iscrizione ai propri servizi al fornire un documento d’identità valido o forse perché non sono davvero interessate a farlo.

Avere un gran numero di bambini che frequentano le proprie piattaforme è, nonostante le posizioni ufficiali delle big tech smentiscano categoricamente che ciò avvenga, un’occasione ghiotta per raccogliere piccoli dati” interessanti agli occhi di marketer e investitori e da sfruttare, poi, quando si tratta di confezionare messaggi pubblicitari su misura rivolti a chi fa acquisti in vece dei propri bambini.

Senza contare che i gestori delle piattaforme possono godere di una sorta di “effetto first mover ” nel lasciare che, indisturbati, tanti minori di tredici anni utilizzino i propri servizi: una volta cresciuti, infatti, da un lato potrebbero essere così abituati a logiche e grammatiche specifiche delle singole piattaforme da non aver voglia di “sprecare” altro tempo ed energie per impararne di nuove, fossero anche quelle di piattaforme più verticali e specializzate, e dall’altro potrebbero non voler spostarsi altrove perché hanno costruito nel frattempo una serie di contatti, di cerchie amicali rilevanti.

È questa la vera ragione, tra l’altro, del proliferare nel mondo dei social network e delle piattaforme digitali di «alternative children friendly, kid friendly», come le ha definite Simone Cosimi.

Le alternative per bambini ai più comuni servizi digitali sono davvero più sicure?

YouTube Kids, Messenger Kids, ora persino una versione di Instagram per under 13 sono le proposte delle big tech per un web per bambini o, meglio, le proposte con cui le big tech cercano di creare una narrativa rassicurante per genitori e decisori politici rispetto a cosa fanno e quanto al sicuro sono i più piccoli in Rete, mentre di fatto legano gli ultimi a «piccoli inganni psicologici di gratificazioni immediate, badge, distintivi, livelli personali d’esperienza, anche se poi la maggior parte delle volte non danno diritto ad alcunché di concreto, lavorano solo sulla nostra ansia di riconoscimento», ha continuato l’esperto.

Perché alcuni procuratori americani vogliono vietare a Zuckerberg di lanciare un Instagram under 13

Motivazioni simili avrebbero spinto i procuratori generali di oltre 40 stati americani a chiedere a Zuckerberg di rinunciare al lancio della versione di Instagram per under 13 a cui si è già accennato. Con questo servizio Facebook creerebbe un nuovo bisogno più che rispondere a un bisogno già esistente, hanno aggiunto i procuratori, dal momento che un bambino di nove o dieci anni non dovrebbe sentire affatto la necessità di sapere quali foto, quali Storie gli altri stanno pubblicando su Instagram.

È certo una posizione “cieca” di ciò che avviene realmente e che non tiene in considerazione cioè il fatto che, perché lo vedono utilizzare in famiglia a genitori o fratelli e sorelle maggiori, la maggior parte dei bambini anche piccolissimi sa già benissimo cos’è e come funziona Instagram. Sfruttare «spazi digitali che corrispondano un po’ di più alle esigenze dei ragazzi» come YouTube Kids, Messenger Kids o quando e se arriverà Instagram Kids può essere così un’occasione come un’altra per «fare un lavoro di educazione e accompagnamento rispetto a dinamiche della Rete che, comunque, quegli stessi ragazzi dovranno affrontare prima o poi ed evitare, cioè, che si ritrovino a 13 anni catapultati in uno spazio di vita completamente nuovo» ha spiegato la psicologa Federica Boniolo.

A sostenere la richiesta di veto sulla versione under 13 di Instagram dei procuratori statunitensi sono dei dubbi, di certo non nuovi, su come passare troppo tempo connessi possa incidere sul senso di felicità percepito dei più piccoli e sulla loro autostima, insieme a una lettera di una no profit americana che si occupa di questioni minorili in cui si sottolinea quante insidie ci siano nell’esporre precocemente i bambini a un ambiente come Instagram «che richiama una costante attenzione sull’aspetto fisico».

È vero, infatti, che sul social visivo di casa Zuckerberg non sono rari i casi di body shaming e, più in generale, alta è l’attenzione degli addetti ai lavori su come alcune dinamiche social possano finire per far sottovalutare o in qualche caso paradossalmente persino promuovere disturbi alimentari come anoressia e bulimia.

Non è un tema completamente nuovo. Si è cominciato anzi a porre l’attenzione sulla necessità di un web per bambini – o meglio sulla necessità di rendere il web per come lo conosciamo e frequentiamo ogni giorno più a misura di bambini – dopo il successo di pubblico di servizi come ask.fmThisCrush. Sul primo gli utenti interagiscono facendosi domande e al patto di rispondere nella maniera più onesta possibile: non di rado, però, le domande sono molto personali o il botta e risposta è utilizzato per offendere l’utente, anche insistendo su dettagli del suo aspetto fisico appunto. Il secondo – come suggerisce lo stesso nome, in inglese un’espressione con cui si fa riferimento alle cotte passeggere – è una sorta di confessionale per problemi di cuore, primi innamoramenti, esperienze sessuali precoci: anche tra gli utenti di ThisCrush non sono mancati, però, episodi controversi o che hanno spinto gli utenti ad atti di autolesionismo o suicidi.

Il maggiore imputato in casi come questi è tradizionalmente l’anonimato garantito dalla Rete.

Quando il bambino sta in Rete in forma anonima: rischi e opportunità

Su ask.fm e su ThisCrush, per esempio, ci si iscrive scegliendo nickname e avatar e potendo decidere solo in un secondo momento se, quando e a chi svelare la proprio vera identità. In qualche caso, come quelli a cui si è appena accennato, l’anonimato spinge a non rispettare le regole e ad avere comportamenti che difficilmente si ripeterebbero fuori, quando non protetti da uno schermo.

Ciò non toglie che, specie quando si tratta di bambini, l’anonimato possa avere dei vantaggi altrettanto consistenti: aiuta a vivere le relazioni meglio, più liberamente, fluidamente e senza (o quasi) l’impaccio di un corpo o una sessualità non ancora ben definita per esempio; crea un senso di complicità e appartenenza; spinge a mostrarsi per quelli che si è davvero più che per quelle che sono le aspettative degli altri (non a caso i “finsta” sono diventati un vero e proprio trend tra gli adolescenti su Instagram); può premiare un meccanismo di apprendimento e correzione tra pari che è in molti frangenti più produttivo di approcci più tradizionali e didascalici.

Gianluigi Bonanomi, autore tra gli altri di “Sharenting. Genitori e rischi della sovraesposizione dei figli online”, ha sottolineato in un’intervista ai nostri microfoni:

«Come un martello può essere usato per appendere un quadro o fracassare la testa a qualcuno, Internet può essere usato insomma molto bene o molto male. La Rete e i social sono utili per comunicare, esprimersi, collaborare, condividere: è per questo che è piena di ragazzi che studiano, si divertono, giocano, discutono senza fare nulla di male e senza rischiare granché. Un esempio? CoderDojo, i club che insegnano la programmazione informatica ai più piccoli: del resto si dice che in futuro o programmerai o sarai programmato».

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I benefici di un web per bambini potrebbero superare i rischi di un uso incontrollato della Rete da parte dei minori

Il sottotesto a quanto detto fin qua è che il dibattito su rischi e pericoli che i bambini corrono online finisce spesso per sovrastare quello sui benefici che anche i più piccoli potrebbero trarre dall’abitare (bene) la Rete.

C’è infatti sempre molta eco mediatica su vicende come quelle della Tide Pod Challenge, della Blue Whale Challenge, della Benadryl Challenge o di Jonathan Galindo o su fenomeni come quelli dell’hikikomori che hanno spinto addirittura governi come quello cinese a chiedersi se non sia il caso di imporre una sorta di “coprifuoco” per videogiochi e altre attività online.

Certo, la posta in gioco è alta e per questo c’è un (nutrito) filone di studi che ormai da tempo indaga gli effetti che i social media hanno sugli utenti, minori e non, da un punto di vista mentale e psicologico: sono studi che, di volta in volta, provano a legare il tempo passato connessi con un maggiore senso di infelicità, una maggiore probabilità di essere vittima di depressione o pensieri suicidi o di sviluppare disturbi del sonno, della concentrazione o dell’apprendimento.

In qualche caso, come quello di uno studio pubblicato su Nature dal titolo “Gli smartphone sono cattivi per alcuni adolescenti, non per tutti”, sono lavori arrivati alla conclusione che social, ambienti e strumenti digitali non creano dal nulla disagi o disturbi, ma possono certo amplificare difficoltà e vulnerabilità già esistenti.

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Secondo uno studio pubblicato da “Nature”, l’uso dei social media amplificherebbe disagi e difficoltà vissute in età adolescenziale. Fonte: Nature

In altri casi sono lavori ancora in fieri o che provano a dimostrare come le iniziative digitali abbiano aiutato molti, anche tra i più piccoli, ad affrontare lo stress da coronavirus per esempio.

Durante quarantene e lockdown infatti – e si tratta solo degli esempi più semplici – è grazie al digitale che si è riusciti a stringere, rafforzare, mantenere le amicizie anche al di là delle distanze geografiche, a scoprire nuovi hobby e passatempi, ma anche cause sociali a cui appassionarsi e attorno alle quali organizzare diverse forme di partecipazione e slacktivism .

Perché è importante crescere cittadini digitali consapevoli

Di attività costruttive che possono essere svolte sul web dai bambini e con i bambini ce ne sono tante. Come ha sottolineato Gianluigi Bonanomi, la cosa fondamentale per i genitori è convincersi che «nonostante i nostri figli, soprattutto quelli più piccoli, sembrino a proprio agio con gli schermi perché sono nati in case piene di smartphone, tablet e schermi tattili di ogni tipo, non sono poi così competenti come crediamo. Usano facilmente, quasi naturalmente, questi strumenti, ma spesso mancano della cosiddetta digital fluency: hanno lacune su privacy, sicurezza, uso consapevole [degli strumenti digitali, ndr] e così via».

A fargli eco è Simone Cosimi quando sottolinea che «competenza e consapevolezza sono due categorie ben diverse: i ragazzi spesso sono competenti, sanno fare tante cose molto meglio dei grandi, sono creativi, ma mancano appunto della consapevolezza, una categoria che alla componente tecnica unisce una visione di medio-lungo periodo, cioè il saper immaginare cosa potrebbe succedere. Non puoi conoscere i rischi derivanti dalla pessima guida di un’automobile, del resto, se non hai almeno delle competenze di fondo su alcuni aspetti tecnici di come funziona un’automobile: non ti poni il problema di mettere le catene nel bagagliaio o di cambiare l’olio per un viaggio di 500 chilometri se non sei mai salito in macchina o non hai mai aperto il cofano».

Di chi è la responsabilità di insegnare ai bambini come stare in Rete

Più difficile è rispondere a domande come “chi è responsabile di educare alla cittadinanza digitale i più piccoli?”, “Di chi è il compito di creare un web per bambini?”. Uno sforzo sinergico sembra indispensabile e non può che coinvolgere soggetti come famiglia, istituzioni, big tech.

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Genitori e caregiver sono considerati i principali responsabili di cosa i bambini fanno con gli smartphone e quando sono connessi, ma c’è una parte di responsabilità attribuita anche a produttori dei device e gestori delle piattaforme. Fonte: Statista

Nel corso del tempo così, come già si accennava, numerose rivendicazioni sono state fatte nei confronti dei produttori dei device tanto quanto dei gestori delle piattaforme.

Un gruppo di shareholder di Apple nel gennaio del 2018 si è rivolto alla compagnia di Cupertino chiedendole un maggiore impegno nello sviluppo di misure e strumenti di parental control che permettano ai genitori di gestire meglio l’utilizzo dei device da parte dei piccoli.

A marzo 2018, poi, uno scandalo ha investito Facebook quando il completamento automatico nella barra di ricerca suggeriva contenuti violenti, riguardanti abusi su minori a chiunque digitasse la stringa “video di”: un errore presto corretto e per cui la compagnia si è prontamente scusata, ma che ha certo allarmato quanto alla salubrità, per i più piccoli, di un ambiente di questo tipo.

Da inizio 2019, dopo che qualche addetto ai lavori si era accorto che sulla piattaforma video di Mountain View abbondavano video in cui gli utenti si sfidavano a giochi pericolosi come quelli a cui si è già accennato o che potevano incitare al suicidio o diffondevano idee negazioniste, YouTube ha prima bannato le challenge e poi operato una stretta sui criteri di monetizzazione.

È in occasioni come queste che, con più prepotenza, sembra avvertita la necessità di interventi di tipo normativo o regolatore, capaci di «dare dei percorsi chiari, degli strumenti e dei perimetri precisi di responsabilità per chi fornisce questi servizi, oltre che su un fronte diverso come l’alfabetizzazione sia dei minori che degli adulti» ha proseguito Simone Cosimi.

Come si diventa (insieme) buoni genitori digitali

Gran parte dell’allarmismo che esiste sugli ambienti digitali e la loro frequentazione da parte dei bambini potrebbe dipendere da una mancata – o incompleta – conoscenza da parte dei grandi del web e delle sue logiche. È la stessa mancanza di digital literacy che, come ha sottolineato Federica Boniolo durante la già citata puntata di Inside Talk dedicata alle insidie del web per bambini, preadolescenti e adolescenti, in qualche caso spinge i genitori a condividere compulsivamente e indiscriminatamente qualsiasi informazione o contenuto riguardante i propri figli, a volte esponendo questi ultimi inconsapevolmente a ulteriori, numerosi, rischi (c’è un nome per il fenomeno: sharenting ).

Sono genitori che, per usare ancora le parole di Simone Cosimi, avrebbero bisogno di «sottoporsi a delle cure Ludovico, per dirlo alla Arancia Meccanica e cioè a delle vere e proprie immersioni in questi ambienti, anche a costo di capirne davvero molto poco all’inizio. In fondo è come una guerriglia: se non conosci il territorio dove si muove tuo figlio o il tuo studente, come pensi di poter prevenire quello che accadrà?».

C’è chi, come Gianluigi Bonanomi, preferisce parlare invece di una

«navigazione familiare che dimostri come la tecnologia non è solo un motivo di scontro in famiglia, ma anche oggetto di condivisione e confronto. È la prima volta nella storia, del resto, che i genitori non sanno indicare la rotta ai figli. Anche se non competenti dal punto di vista tecnologico, però rimangono più maturi di loro dal punto di vista emotivo e morale, per questo dovrebbero aiutarli, affiancarli, trovare dei momenti, anche pochi minuti al giorno, per usare con loro questi strumenti, se non addirittura stilare delle regole di uso consapevole della tecnologia o per preservare sicurezza e privacy online. Solo se le regole sono condivise, e valgono per tutti, del resto funzionano».

Molti genitori di bambini sul web spesso infatti non forniscono un esempio coerente: come si può pensare, infatti, che i figli sappiano distinguere cosa si può tranquillamente condividere in Rete da cosa è meglio tenere per sé se per primi, da grandi, non si fanno questo tipo di distinzioni? Come si può pretendere che rispettino degli orari di pausa tassativa dai social se con la scusa di una chiamata o un messaggio di lavoro si contravviene alla regola del non guardare il telefono mentre si è a tavola?

È quello su cui ha invitato a riflettere Federica Boniolo, sottolineando che essere genitori digitali è certo «un impegno, una responsabilità nuova: le cose cambiano continuamente e restare al passo è complicato». Servono «curiosità, apertura mentale, il partecipare a degli incontri o rivolgersi a degli esperti che possano aiutare a gestire alcuni aspetti della vita in Rete del bambini quando non si riesce da soli, il non sentirsi colpevolizzati o giudicati, il riconoscere che non è qualcosa di propria competenza e confrontarsi, quindi, con altre famiglie ma soprattutto sperimentare con i ragazzi».

Se già nel caso degli adulti a mettere più a rischio la sicurezza digitale dell’individuo sono cattive scelte fatte quotidianamente, infatti, è più facile costruire una buona cultura digitale a partire da un approccio condiviso da cui genitori e figli abbiano vicendevolmente da imparare.

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