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Perché boicottare la pubblicità su Facebook non basta (o forse non serve) contro il potere delle piattaforme

C'è stato un incontro tra Zuckerberg e i soggetti che hanno deciso di boicottare la pubblicità su Facebook e non è andato tutto liscio.
La notizia è che Zuckerberg e il proprio team hanno accettato di incontrare no profit, associazioni, rappresentati e portavoci di quei soggetti che hanno scelto di boicottare la pubblicità su Facebook, aderendo per il mese di luglio alla campagna “Stop Hate for Profits”. Secondo quanto riportato da Tech Crunch, però, la riunione sarebbe risultata in un nulla di fatto e ci sarebbe stato grande disappunto di fronte alle posizioni di Facebook da parte di attivisti per i diritti civili come le americane Color of Changes, Free Press, NAACP.
Così Zuckerberg risponde a chi ha scelto di boicottare la pubblicità su Facebook
Fin dall’inizio di questa querelle con grandi brand come The North Face, Patagonia, Ford, Starbucks, Coca-Cola – ma la lista si è allungata fino a comprendere ormai oltre cinquecento aziende – che hanno deciso di boicottare la pubblicità su Facebook, del resto, da Menlo Park non sembrano esserci stati grandi segni di apertura di fronte alle richieste di più impegno contro il dilagare sulla piattaforma di hate speech , commenti offensivi, comportamenti abusanti. «Finché c’è odio nel mondo, ci sarà odio anche su Facebook» avrebbe commentato, infatti, un responsabile di Facebook UK, rimarcando come l’algoritmo da un lato e dall’altro il lavoro di decine di miglia di moderatori riescano oggi nell’individuare e rimuovere automaticamente e in poco tempo oltre il 90% dei contenuti che violano policy, linee guida e standard di comunità – ammissione questa che l’altro lato della campana ha interpretato però come un (sicuramente non voluto) mea culpa da parte della piattaforma, consapevole che i propri spazi non ospitino sempre contenuti di valore e conversazioni di qualità. Secondo quanto riportato da The Information, rivolgendosi ai propri dipendenti Zuckerberg avrebbe rincarato la dose, dicendosi convinto che anche le aziende che hanno scelto di boicottare la pubblicità su Facebook «ritorneranno sulla piattaforma abbastanza presto» e determinato a «non cambiare policy e approcci consolidati» su Facebook per quello che, più che un problema finanziario o di introiti, ha definito un «problema reputazionale» e di rapporti con i propri partner commerciali.
Cosa c’è davvero dietro alla scelta di molte aziende di non investire, momentaneamente, in social adv
Gli effetti della campagna “Stop Hate for Profits” sui bilanci di casa Zuckerberg, del resto, si vedranno nel prossimo trimestre, ma – è stato sottolineato più volte e fin da quando le prime aziende hanno annunciato di voler boicottare la pubblicità su Facebook – potrebbero non essere dirompenti come si immagina. Sia perché i veri big spender in advertising su Facebook sono tradizionalmente piccole e medie imprese con minori possibilità di ridistribuire diversamente il proprio budget digitale e sia perché, come fa notare la World Federation of Advertiser, con ogni probabilità un’azienda su tre avrebbe tagliato comunque la propria spesa in social media advertising quest’anno per far fronte all’impasse finanziaria legata all’emergenza coronavirus. Il sospetto sembra essere, insomma, che molte aziende abbiano approfittato della situazione per trasformare una decisione già presa, quella temporanea di non investire o di investire meno in campagne Facebook, in un’operazione di brand activism a favore di ambienti digitali più inclusivi per tutti e più rispettosi dei diritti di tutti. Operazione di brand activism che, vista da questa prospettiva, potrebbe rischiare però qualche, non del tutto immotivata, accusa di woke washing .
Scavando più a fondo tra le motivazioni che hanno spinto le aziende a boicottare la pubblicità su Facebook ci si accorge, del resto, che queste sono più complesse della semplice vicinanza ideologica alla causa della Black Community americana o della volontà di zittire odiatori seriali e troll sui social. Esemplare è il caso di Unilever: in parte smentendo la propria posizione originaria, il gruppo ha recentemente sottolineato di non prendere parte alla campagna “Stop Hate For Profits”, ma di limitarsi a sospendere fino a fine anno la spesa in pubblicità su Facebook, Instagram e Twitter solo ed esclusivamente in America. In Unilever sarebbero convinti che «conversare, e non boicottare, è la via per rendere più sani i social media» (questo è il titolo dell’articolo di The Drum che riporta le dichiarazioni di un responsabile del gruppo), consapevoli comunque che conversazioni conflittuali, fortemente polarizzate e a tratti inevitabilmente tossiche come saranno – in particolare nei prossimi mesi di campagna elettorale per le presidenziali americane del 2020 – quelle sui social media rappresentano un rischio notevole per la propria brand safety.
Com’è andato l’incontro tra Zuckerberg e le aziende che voglio boicottare la pubblicità su Facebook
Tenere il proprio brand fuori da un ambiente tossico sembra un obiettivo perlomeno diverso e decisamente più interessato, insomma, da quello dichiarato di voler boicottare la pubblicità su Facebook perché quest’ultimo e il resto delle piattaforme simili smettano di fare profitto su contenuti suprematisti, antisemiti, cospirazionisti, negazionisti, no vax o più semplicemente disinformativi.
Quando Facebook – nelle persone di Zuckerberg, la direttrice operativa Sheryl Sandber, il nuovo CPO Chris Cox e svariati altri membri del product team – ha partecipato alla riunione con i promotori della campagna “Stop Hate for Profits” si è visto avanzare infatti richieste decisamente ideologiche che andavano dalla nomina di un executive con conoscenze avanzate in materia di diritti civili a rimborsi per tutti quei brand che inconsapevolmente avessero investito in ads su contenuti poi rimossi perché violanti termini e condizioni del servizio, passando per un maggiore impegno da parte della piattaforma nel riconoscere e bannare gruppi e pagine fasciste per esempio o inneggianti alla violenza organizzata e, ancora, per più trasparenza rispetto alle «relazioni politiche dell’azienda».
Il riferimento, poco velato, è nell’ultimo caso al presunto incontro segreto tra Zuckerberg e Trump di cui tutti parlano. Se confermato, e foriero di un qualche accordo più o meno esplicito tra il patron di Facebook e l’aspirante due volte presidente degli Stati Uniti, potrebbe motivare un certo lassismo della piattaforma nei confronti di contenuti controversi condivisi dagli account ufficiali di Trump e altrove segnalati o rimossi – contenuti controversi da cui, a ben guardare, è cominciata la stessa «adpocalypse» (così la chiama Rivista Studio) dei brand che hanno deciso di boicottare la pubblicità su Facebook – e potrebbe spiegare, soprattutto, perché l’atteggiamento di Zuckerberg e del proprio team sia sembrato «inconcludente» e «più interessato alle parole che ai fatti» agli occhi degli attivisti di “Stop Hate for Profits”.
Lo strapotere di Facebook (e le altre big tech) nella società delle piattaforme
Facebook è ormai troppo grande per fallire, sottolinea The Guardian, e, cosa ancora più importante, è ben consapevole di esserlo. Il vero nodo centrale della questione, insomma, ha a che vedere con come la cosiddetta platform society abbia trasformato soggetti business, portatori di interessi naturalmente di parte, in depositari dell’identità di Internet che, aspetto ancor più controverso, non di rado sentono di avere il compito di difendere diritti fondamentali dell’individuo, come la libertà d’espressione per esempio. Oggi buona parte degli spazi di cittadinanza è occupata, cioè, da soggetti originariamente privati che, di fatto, però «controllano l’espressione umana più di quanto abbia mai fatto qualsiasi governo», sottolinea ancora The Guardian, e lo fa by design, incoraggiando certe pratiche piuttosto che altre (in un’operazione detta, in gergo, di ” nudging “). Ancora, a dettare le regole di Internet ci sono pochi o pochissimi soggetti e ciò sarebbe, a detta di The New Yorker, una semplice conseguenza degli effetti di rete: un servizio, come Facebook, che ha ormai abbondantemente superato i 2.5 miliardi di iscritti ha la capacità di trasformare le proprie policy in standard generalmente accettati per quanto riguarda le conversazioni online, proprio per il potere contrattuale e da monopolista che gli conferiscono i propri iscritti, tanto più che sono quegli stessi iscritti con le proprie abitudini di consumo e propensioni di voto a fare gola ad aziende, stakeholder , attori pubblici e decisori politici.
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