Food marketing. Creare esperienze nel mondo dei foodies
In "Food marketing" Carlo Meo analizza i principali trend che hanno letteralmente sconvolto in questi anni il settore enogastronomico.
EDITORE | Hoepli |
---|---|
PUBBLICATO | Maggio - 2015 |
EDIZIONE | 1° |
PREZZO | € 16,91 su Amazon |
PAGINE | 160 |
LINGUA | italiano |
ISBN/ISSN | 882036686X |
AUTORE | C. Meo |
VALUTAZIONE | Inside Marketing |
Compra |
Recensione Inside Marketing
- Di Virginia Dara
- 3' lettura
Chi sono i foodies e quali strategie di marketing rendono tutto ciò che è legato al cibo – meglio, al food – più d’appeal per loro? In “Food marketing. Creare esperienze nel mondo dei foodies” (edito da Hoepli), Carlo Meo sembra iniziare un’interessante riflessione su ciò che avvenuto nel mercato enogastronomico, italiano e non solo, in questi anni. Vale la pena sottolinearlo subito: il saggio è del 2015, riporta dati ed esperienze aggiornati al biennio precedente e chi abbia una certa familiarità con la materia si accorgerà subito che, nel frattempo, tante cose sono cambiate – e di molto – rispetto allo stesso quadro che viene fuori dal testo.
Una cosa, però, non è cambiata: da un lato ci sono dati che sottolineano come il mercato alimentare sia in crisi, dall’altro in ogni città continuano a nascere attività che hanno il food nell’anima. Il food, appunto, e non il cibo: c’è un’operazione strategica di riposizionamento dietro all’uso, sempre più frequente, che facciamo dell’anglicismo «food». Quello che il food marketing ha fatto è stato, cioè, trasformare un bisogno primario e naturale, come quello di mangiare, in un bisogno più evoluto: se andare a fare la spesa e portarsi a casa quel che serve per preparare un piatto veloce o un piatto della tradizione è boring and cheap (ossia percepito come noioso e da poveri, ndr), mangiare quello stesso piatto su un banchetto dello street food o in una bottega del cuore è diventata un’esperienza da immortalare e condividere sui social e non solo.
I foodies, del resto, sono proprio questo: persone che hanno interesse spiccato per tutto ciò che gira intono al mondo del cibo e che cercano esperienze, di volta in volta diverse, in questo campo.
Cosa è successo in questi anni nel mondo dei foodies italiani
Carlo Meo prova, così, a parlare direttamente a chi oggi opera in Italia nel settore della ristorazione e affini e a mostrare loro soluzioni possibili – dalla specializzazione di formule come la Braceria o la Polpetteria alla possibilità di assoldare chef famosi che aiutino a posizionare meglio la propria attività, passando per le opportunità offerte oggi dai ristoranti etnici e dalle sperimentazioni fusion – per attrarre, di più e più consapevolmente, questa tipologia di consumatori. Il risultato è un lungo elenco di casi di studio, dati di settore, best practice ma, anche e soprattutto, esempi da non imitare. Tutte cose di cui chi vuole trasformare la sua semplice attività enogastronomica in un’esperienza a prova di foodies può trovare, certo, utilissime. C’è il rischio di credere, però, che si possa fare tutto da sé e senza teoria, mentre a ben guardarla anche una strategia di food marketing non può fare a meno di un approccio quanto più olistico e ragionato possibile.
Ogni capitolo è, insomma, dedicato a un tema diverso: si parla di chef che stanno sempre più in TV e sempre meno in cucina, come di locali polifunzionali che di giorno fanno il pane e di notte servono cocktail alla moda e, ancora, di fast food, food delivery, gdo e certificazioni per i prodotti del territorio. Il rischio è di perdere il fuoco, quando l’intento nobile era invece capire verso dove si stava muovendo il mondo – e il mercato – dell’enogastronomia nostrana. Ancora una volta, l’essere stato scritto nel momento in cui il trend stava ancora nascendo e le esperienze nel campo erano multiformi e disorganizzate potrebbe rappresentare un’attenuante.
Fare food marketing all’italiana (che forse non funziona)
C’è una critica però che “Food marketing” sembra muovere alla specificità del mercato italiano e che a ben guardare, ora che quello stesso mercato appare certo più definito, potrebbe rappresentare un ottimo viatico di crescita. Quando parlano di cibo gli italiani sono provinciali: sono convinti di essere il popolo che sa mangiare meglio al mondo; per anni hanno puntato solo su tipicità e prodotti tradizionali, senza per altro creare per loro uno storytelling ad hoc; cosa ancora più critica, hanno affibbiato ai foodies del mondo le stesse, identiche caratteristiche di quelli italioti; hanno persino un’organizzazione – aziende a conduzione familiare, PMI, ecc. – che non è funzionale al mercato in questione e che rende ancora più difficile, se non inaccessibile, la sfida dell’internazionalizzazione. Per creare esperienze, nuove e coinvolgenti nel mondo dei foodies, insomma, serve desacralizzare prima, ed eventualmente risacralizzare poi, la ritualità e il mito del buon mangiare all’italiana.
Chissà che in questi tre anni trascorsi nel frattempo qualcosa non sia effettivamente cambiato.