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Pinkwashing

Definizione di Pinkwashing

Il Pinkwashing è la pratica di promuovere un prodotto o un servizio come se fosse pensato per favorire l’empowerment femminile o, più in generale, di veicolare l’immagine di azienda impegnata sui temi del rispetto, dell’uguaglianza, dell’inclusione pur in mancanza di politiche di genere concrete o essendo stati in passato protagonisti di vicende controverse.

Pinkwashing: significato, origine ed evoluzione dell’espressione

Come “ greenwashing ”, “pinkwashing” deriva dall’espressione inglese “whitewashing” che ha tra i significati “ripulire”, “imbiancare”.

Le aziende sono ormai ben consapevoli di quanto conta per i consumatori che i brand prendano pubblicamente posizione rispetto a grandi cause come quella ambientalista o femminista e ai temi caldi del discorso pubblico del momento. Proprio in virtù del fatto che con le loro attività tutto fanno tranne che proteggere la salute del Pianeta o favorire l’uguaglianza di genere, spesso passano una pennellata di verde o di rosa sui propri prodotti, sulla propria visual identity, sulla propria immagine pubblica in operazioni tattiche mirate a migliorare posizionamento e reputazione.

Non è un caso che la prima a usare l’espressione “pinkwashing” nella sua accezione attuale fu, nel 2002, la Breast Cancer Action, un’organizzazione che negli Stati Uniti offre supporto alle persone che hanno o hanno avuto un cancro al seno. Notando il dilagare di prodotti in edizione limitata con impresso il pink ribbon simbolo della lotta al tumore al seno, specie in occasione di giornate o mesi dedicati alla prevenzione, diede di pinkwasher definizione di

«organizzazione o compagnia che sostiene di avere a cuore la lotta al tumore al seno e per questo promuove prodotti con il fiocchetto rosa, ma allo stesso tempo produce e/o vende prodotti che contengono sostanze chimiche connesse alla malattia»1.

La presa di posizione della BCA contro il pink ribbon marketing fu accompagnata da una campagna, “Think Before You Pink2, che aveva come obiettivo sia stimolare i consumatori a porsi più domande e più critiche davanti all’ennesima limited edition rosa a sostegno della lotta al tumore al seno, sia chiedere più trasparenza e accountability alle aziende che volevano mostrare supporto alla causa. Tingere di rosa il proprio cestello di pollo fritto senza accertarsi di usare ingredienti e metodi di cottura sicuri per la salute delle donne non può che essere, del resto, un’operazione di facciata e che poco ha a che vedere con il desiderio di dare sostenere concretamente la ricerca, i malati oncologici e le loro famiglie. Né fanno meglio le donazioni una tantum a realtà ospedaliere o che si occupano di ricerca scientifica.

Con il tempo l’espressione “pinkwashing” cominciò a essere usata anche in riferimento ad altre forme di brand activism di facciata che corrispondevano a un impegno concreto da parte delle aziende a favore delle cause in questione.

Non sempre erano cause che avevano direttamente a vedere con le condizioni e i diritti (civili, a lavoro, di salute, ecc.) delle donne: più spesso erano cause legate al complesso delle questioni di genere.

Pinkwashing e rainbow washing: c’è differenza?

Di pinkwashing sono state spesso accusate le aziende che pubblicamente hanno mostrato sostegno alla comunità LGBTQIAP+ o durante il mese dei Pride si sono prodigate in campagne a favore dei diritti delle persone e delle coppie non binarie e lo hanno fatto mettendo in vendita edizioni speciali e arcobaleno dei propri best seller pur avendo politiche interne che scoraggiano il coming out o impediscono ai dipendenti queer di fare carriera e che più in generale non favoriscono l’inclusione. In molti casi, cioè, “pinkwashing” continua a essere usato come sinonimo di “ rainbow washing ”.

Alcuni esempi di pinkwashing e perché e come evitarlo

Nel tempo il rosa è diventato il colore simbolo di un certo femminismo che ha a cuore l’emancipazione della figura femminile da stereotipi fisici, sociali, di ruolo tra i più duri a morire.

Di rosa si sono tinte così magliette che inneggiano alla body positivity, bambole ispirate a donne che in passato hanno rotto gli schemi e contribuito a migliorare la condizione femminile, prodotti che normalizzano la depilazione e le mestruazioni, campagne che spazzano via i tabù sul piacere sessuale femminile. Il passo dal sostenere la causa femminile in una delle sue innumerevoli sfaccettature al provarsi in un’operazione solo di facciata rischia di essere molto breve se quelle stesse magliette sono messe in vendita da brand del fast fashion con un sistema di taglie che non va oltre quelle standard, se le stesse bambole che ora insegnano alle bambine che possono sognare per il proprio futuro qualsiasi carriera per decenni hanno contribuito a consolidare un certo stereotipo di donna, se chi compra rasoi femminili e assorbenti deve pagare una sorta di “pink tax” che non esiste sui prodotti maschili o se c’è insito e quasi inconscio anche nell’invito rivolto alle donne a scoprire la propria sessualità pensando solo al piacere un certo sguardo maschile. Naturalmente sono solo alcuni dei numerosi esempi di pinkwashing possibili.

Non avere politiche interne votate alla diversità, l’equità, l’inclusione – i cosiddetti obiettivi DEI – o averle ma non metterle concretamente in pratica è spesso preludio alle accuse di pinkwashing, specie se in occasione di giornate da calendario di marketing come la Giornata internazionale delle donne o la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne ci si prova in iniziative e campagne che di fatto veicolano messaggi incoerenti con la propria cultura aziendale.

Alcune aziende sono state criticate per aver scelto come brand ambassador imprenditrici donne e averle coinvolte in progetti di CSR dedicati alle giovani con un’idea da trasformare in business, pur avendo dinamiche interne che di fatto impediscono alle dipendenti di fare carriera e raggiungere un livello alto dell’organigramma aziendale (un fenomeno detto “ glass ceiling ”).

C’è chi ha fatto notare l’incoerenza tra un gran numero di lavoratrici donne nell’industria dei media e della comunicazione e le condizioni salariali, contrattuali, organizzative a cui devono sottostare. Assumere più donne, anche laddove non ci siano vincoli normativi e quote rosa da rispettare, per mostrarsi impegnati a favore della causa dell’occupazione femminile può essere considerato una forma di pinkwashing, infatti, se a quelle stesse lavoratrici non sono garantiti condizioni e un’ambiente di lavoro sano come accade per i colleghi uomini.

È pinkwashing anche provarsi in campagne a favore di natalità e genitorialità, ma poi non concedere i congedi parentali anche ai papà, non avere in azienda spazi utilizzabili per l’allattamento o programmi di welfare aziendale dedicati alle neomamme.

Considerata l’attenzione pubblica di cui oggi gode il tema e che più in generale i consumatori tendono a consumare consapevolmente, informandosi a 360 gradi sulle aziende da cui comprano e scegliendo solo quelle con visioni e valori più vicini ai propri, può essere rischioso provarsi in operazioni di pinkwashing come quelle appena descritte. Più in generale, il woke washing è pericoloso: scoprire che un’azienda ha sostenuto solo in maniera posticcia una causa, come quella femminile, nella speranza di “catturare” la simpatia dei consumatori e generare a valle maggiori profitti può causare danni e non solo reputazionali maggiori dei potenziali benefici.

Note
  1. Breast Cancer Action
  2. Breast Cancer Action

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