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Cos'è il rainbow washing e perché è un rischio che le aziende corrono durante il Pride Month

Significato di Rainbow washing

rainbow washing Il Rainbow washing è la pratica di mostrare supporto alla causa LGBTQIAP+ lanciando prodotti in edizione limitata e queer-friendly o tramite iniziative di marketing e campagne di comunicazione in genere piuttosto estemporanee e che non corrispondono a un impegno concreto per rendere la cultura aziendale più inclusiva e votata alla diversità.

Rainbow washing: significato e origini dell’espressione

L’espressione rainbow washing è composta dai termini “rainbow” (“arcobaleno”) che allude alla Rainbow Flag, diventata nel tempo uno dei simboli più forti dell’orgoglio gay, lesbico, bisessuale e trans, e “washing” (nell’accezione di “ripulire”) utilizzato sempre più spesso in riferimento ai tentativi delle aziende di dissimulare in diversi modi, e in particolare tramite strategie di marketing e di comunicazione, le proprie politiche più controverse.

Del resto, il rainbow washing è a tutti gli effetti un sottogenere del woke washing , anche se viene considerato spesso, per ragioni anche storiche, soprattutto come una variante del pinkwashing e, cioè, della pratica di dedicare collezioni speciali, campagne di comunicazione, iniziative di marketing o persino progetti di corporate social responsibility all’empowerment femminile senza preoccuparsi di quanto concretamente le proprie politiche aziendali siano votate all’equità e all’inclusione di genere.

Cos’è il rainbow washing e perché le aziende lo fanno

Sono tanti i modi in cui le aziende fanno rainbow washing.

Il più comune è tingere di arcobaleno logo , brand name e altri elementi della propria identità visiva e farlo in frangenti particolari, cosa che avviene nella maggior parte dei casi nel mese di giugno in cui si celebra a livello internazionale l’orgoglio queerNota[ Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Mese_dell’orgoglio_LGBT [/FootNota].

Sono ormai numerose anche le aziende che decidono di sponsorizzare o diventare partner ufficiali delle sfilate che si tengono, proprio durante il Pride Month, nelle varie città.

Non meno frequente è il lancio, in questa stessa occasione, di prodotti o linee di prodotti in edizione speciale con dettagli arcobaleno o simboli immediatamente riconducibili alla cultura queer capaci di trasformarsi, una volta acquistati, in un vessillo del supporto alla comunità LGBTQIAP+.

L’alternativa sono prodotti progettati in design e funzionalità per soddisfare al meglio gusti ed esigenze specifiche degli individui non binari.

Spesso il ricavato (o parte di esso) dalla vendita delle edizioni speciali per i Pride viene donato a organizzazioni, associazioni e no-profit che offrono sostegno di diverso tipo – medico, psicologico, legale, organizzativo, eccetera – alle persone non binare. Più in generale, donazioni e charity rientrano tra i modi in cui le aziende si assicurano di avere l’immagine pubblica di una realtà che sostiene attivamente la comunità LGBTQIAP+ e le sue rivendicazioni.

Allo scopo di mostrare vicinanza alla causa queer possono concorrere, ancora, campagne di comunicazione con claim a effetto o call to action che invitano i destinatari a fare qualcosa di concreto (una donazione, un acquisto, l’iscrizione a un’associazione, la firma di una petizione, eccetera) in sostegno di chi vive una sessualità non binaria, ma anche che abbiano testimonial vip o brand ambassador che provengono o sono vicini alla stessa comunità queer.

Non sono state poche nel tempo le aziende che, in occasione dei Pride e non solo, hanno collaborato con attivisti, membri in vista della comunità LGBTQIAP+, influencer queer: a volte le collaborazioni hanno avuto a oggetto la co-progettazione delle già citate limited edition per i Pride Month, altre il take over temporaneo dei profili social aziendali.

Non tutte le iniziative a sostegno della causa LGBTQIAP+ sono forme di rainbow washing

Operazioni di questo tipo, come molte altre tramite cui le aziende provano ad affermare con forza e pubblicamente il proprio sostegno alla causa LGBTQIAP+, si basano su due assunti principali.

Il primo è che i consumatori oggi si aspettano che le aziende, e in modo particolare le aziende che ammirano al punto di trasformarle in love brand , prendano pubblicamente posizione riguardo ai grandi temi del dibattito pubblico, siano essi la lotta al cambiamento climatico o, appunto, per il riconoscimento dei principali diritti – civili, lavorativi, medici, eccetera – che prescinda l’identità di genere.

Il secondo è che brand activism e corporate advocacy possono incidere su risultati concreti come quelli che hanno a che vedere con gli obiettivi di vendita. Lo fanno sia in positivo se è vero che, come suggeriscono tra gli altri dei dati di eMarketer, quasi un consumatore su quattro preferisce acquistare da compagnie note per essere «LGBTQ+-friendly»1, e sia in negativo, come ha mostrato la vicenda della nota marca di birra che ha visto crollare le proprie vendite dopo aver collaborato con un’influencer trans.

Prima di legarsi e di legare la propria immagine pubblica a una causa, insomma, bisogna assicurarsi di veicolare messaggi il più coerenti possibile con la propria storia, la propria missione, i propri valori aziendali, ma anche con quelli delle personas a cui ci si rivolge primariamente.

Investire in “Pride marketing“, e cioè dedicare campagne, iniziative, attivazioni alla causa LGBTQIAP+, può contribuire a migliorare il proprio posizionamento o la propria risonanza all’interno di un gruppo ben determinato di consumatori se valori come l’inclusione, l’equità, il rispetto e la valorizzazione delle diversità sono parte fondante della propria cultura aziendale e si traducono in politiche concrete all’interno e all’esterno degli ambienti aziendali.

Non sempre e non tutte le iniziative dei brand per i Pride Month o, più in generale, a sostegno della community queer devono essere inquadrate, in altre parole, come operazioni di rainbow washing.

Anzi, come spesso hanno fatto notare attivisti e addetti ai lavori , anche se può sembrare che non abbiano risvolti concreti, iniziative per i Pride Month e campagne a sostegno della comunità LGBTQIAP+ riescono a portare all’attenzione di un pubblico più vasto e mainstream, seppur temporaneamente, la causa, i suoi protagonisti, le loro rivendicazioni.

Alcuni esempi di rainbow washing

La sfida per le aziende è, semmai, fare in modo che le proprie campagne e iniziative a sostegno della community LGBTQIAP+ non siano tacciate come rainbow washing.

I consumatori di oggi sono più smaliziati di quelli di un tempo e più consapevoli di come funzionano certe tattiche di marketing, tanto che secondo degli insight di YouGov una persona su due2 si dice convinta di saper riconoscere agilmente i tentativi di woke washing in generale e rainbow washing più nel dettaglio.

Avere politiche interne che scoraggiano il coming out o che penalizzano chi pubblicamente ammette di vivere una sessualità non binaria, impedendogli di fare carriera, per esempio, e anche senza arrivare a episodi penalmente rilevanti di mobbing , non è certo una buona premessa perché le proprie campagne risultino credibili.

Molti dei casi di rainbow washing sono stati sventati ripescando dichiarazioni pubbliche transomofobe di amministratori delegati, manager e altro personale in vista dell’azienda.

In America tra le aziende che sono state accusate di voler trarre unicamente profitto cavalcando temi cari alla causa queer ce ne sono diverse che hanno sostenuto, con donazioni e fondi, le campagne elettorali di politici della destra radicale e vicini a ideologie anti-LGBTQIAP+.

Accuse di rainbow washing, nel tempo, sono cadute anche su aziende che non si erano assicurate che i prodotti in edizione speciale e arcobaleno per i Pride non fossero fabbricati o esportati da paesi in cui omosessualità e identità non binarie sono ancora puniti come reati.

Anche non usare in pubblico e per le proprie comunicazioni interne un linguaggio inclusivo può essere prodromo di accuse di rainbow washing, specie se si sceglie di incentrare il concept delle proprie campagne proprio sull’idea di inclusività.

Spesso sono state bollate come operazioni di appropriazione culturale quelle che hanno visto replicare la bandiera arcobaleno o applicare i simboli dell’orgoglio queer a prodotti merceologicamente molto distanti dal target in questione: molti attivisti si sono chiesti, infatti, cosa c’entrasse con l’orgoglio queer un tramezzino da banco o un panino da fast food.

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Note
  1. eMarketer
  2. YouGov

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