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I dipendenti di Facebook scioperano e c'entra la decisione di Zuckerberg di non segnalare i post di Trump

dipendenti di Facebook scioperano

Da qualche giorno i dipendenti di Facebook scioperano e c'è chi ha rassegnato le dimissioni: nell'occhio del ciclone le policy verso i post di Trump.

La notizia è che i dipendenti di Facebook scioperano, e lo fanno in centinaia come è accaduto davvero raramente nella storia della compagnia, contro la decisione ufficiale di Menlo Park di non intervenire sui post di Trump riguardo ai fatti di Minneapolis.

Nei giorni scorsi, infatti, il presidente americano aveva condiviso un messaggio in cui, riferendosi alle proteste che dal Minnesota si sono diffuse a macchia d’olio in molti altri Stati, paventava l’opportunità di «cominciare a sparare» in risposta ai saccheggi in atto. Messaggio che, peraltro, era stato nascosto da Twitter perché reputato contrario alle policy della piattaforma riguardo ai contenuti violenti o che inneggiano alla violenza. Fin da subito Zuckerberg aveva sottolineato di non voler fare altrettanto, e di non essere disposto cioè a bannare o a segnalare il post di Trump, nella convinzione che non sia compito di una piattaforma digitale assurgersi ad «arbitro della verità».

dipendenti di facebook scioperano post di trump non bannato

Il post di Trump al centro della polemica. Nascosto da Twitter perché considerato contrario alle policy della piattaforma contro contenuti violenti e hate speech, non è stato segnalato invece da Facebook.

Quella che era nata come una chiara querelle con Jack Dorsey si è presto trasformata, così, in una questione interna alla compagnia: i dipendenti di Facebook scioperano, come racconta tra gli altri The New York Times, qualcuno ha minacciato le dimissioni, c’è chi le ha già rassegnate e lo stesso Zuckerberg si è visto costretto a chiarire la propria posizione, oltre che a promettere un’apertura rispetto alla possibilità di modificare le policy di Facebook riguardanti proprio moderazione e fact-checking sui post dei politici.

I dipendenti di Facebook scioperano, si dimettono e accusano Zuckerberg di «scarsa moralità» per la gestione dell’affaire Trump

Tutto è cominciato lo scorso lunedì (1 giugno 2020), quando centinaia di collaboratori di Menlo Park, già a lavoro da remoto per via delle misure di contenimento del contagio da coronavirus, hanno aggiunto dei messaggi automatici alle firme digitali delle proprie caselle di posta elettronica professionali, sottolineando che non stavano lavorando in segno di protesta. Lo sciopero virtuale si è poi spostato su Twitter dove i dipendenti di Facebook hanno accusato la compagnia di mentire rispetto alla volontà di creare sulla piattaforma un ambiente sempre più accogliente e inclusivo per tutti, di un certo lassismo verso una retorica piuttosto violenta e polarizzante quale si è dimostrata in più occasioni quella del presidente Trump e, ancora, di mascherare di neutralità una semplice mancanza di moralità. Mentre centinaia di dipendenti di Facebook scioperano, soprattutto, ci sono collaboratori storici di Zuckerberg come Timothy Aveni e Owen Anderson che si sono «fieramente» licenziati da Facebook («fiero» è proprio l’attributo utilizzato dal secondo per annunciare con un tweet le proprie dimissioni, ndr) e influencer di settore piuttosto seguiti, come lo youtuber e twitcher Ryon Day, che avrebbero sentito l’«imperativo morale» di rifiutare una, pur ambita e tanto aspettata, proposta di collaborazione con Facebook.

Più tardi anche i moderatori di Facebook hanno firmato una lettera di supporto ai dipendenti in sciopero, come racconta The Guardian. Si tratta di una lettera in cui gli stessi sottolineano come l’ondata di proteste in America si stia traducendo sul social in innumerevoli commenti razzisti, in un uso diffuso di hate speech , nella condivisione incontrollata di video e immagini che mostrano violenza da parte delle forze dell’ordine su afroamericani e manifestanti. Mentre il proprio lavoro da moderatori si fa, così, sempre più complesso, le condizioni contrattuali «precarie» (proprio questo l’aggettivo scelto dai firmatari: molti dei moderatori di Facebook sarebbero, chiarisce The Guardian, in outsourcing da aziende terze) non permettono loro di scioperare accanto al resto dei colleghi. Questo non significa, però, che molti di loro non abbiano avvertito la necessità di far sentire la propria voce, dicendosi convinti che «Zuckerberg possa fare molto di più per rendere la sua piattaforma sicura e uguale per tutti».

Va da sé che anche dichiarazioni e chiarimenti ufficiali, sia da parte di Zuckerberg sia da parte della compagnia, si sono rincorse in queste ore. Prima in ordine di tempo è arrivata una dichiarazione alla CNN di un portavoce di Facebook che ha sottolineato come l’azienda sia «consapevole della sofferenza che molte persone dentro a Facebook, e in particolare la nostra Black community, stanno vivendo» e incoraggiato i dipendenti a continuare a mostrare sempre e tenacemente il proprio disaccordo rispetto alle decisioni dei vertici. In un lungo post sul proprio profilo personale, più tardi, Mark Zuckerberg ha detto di essere «disgustato dalla retorica violenta e divisiva» del presidente Trump, ma allo stesso tempo di dover reagire non «tanto in prima persona ma come leader di un’istituzione votata alla libertà di espressione».

This has been an incredibly tough week after a string of tough weeks. The killing of George Floyd showed yet again that…

Posted by Mark Zuckerberg on Friday, May 29, 2020

Perché Facebook non banna Trump: le ragioni di Zuckerberg

Libertà d’espressione da un lato e, dall’altro, necessità che anche le aziende prendano posizione (quello a cui in gergo ci si è riferiti soprattutto negli ultimi mesi come brand activism ) sembrano, del resto, i due grandi perni attorno a cui gira l’intera questione Trump vs big digitali, questione che è già culminata con un ordine esecutivo firmato da Trump che, di fatto, potrebbe rendere più semplice ricorrere in giudizio verso le seconde.

Da un punto di vista giuridico, infatti, è il vecchio Telecommunication Act del 1996 a rendere Zuckerberg, in quanto semplice gestore di una piattaforma editoriale, non responsabile per i contenuti postati dagli utenti, anche quando più che di semplici utenti si tratta di personaggi ben in vista e con un certo seguito come i leader politici internazionali appunto.

Le ragioni più ideologiche dietro alla decisione di Facebook di non bannare, né cancellare o segnalare i contenuti controversi postati da Trump sembrano essere state spiegate, invece, dallo stesso Zuckerberg in una conferenza riservata a dipendenti e collaboratori. Come riporta The Verge, dopo aver sottolineato che se i dipendenti di Facebook scioperano la compagnia ha costi e non solo logistici da affrontare, il CEO di Menlo Park avrebbe ricordato che il presupposto su cui si basa Facebook è assicurare a ogni utente la possibilità di «dire quello che vuole, a meno che non stia causando un reale pericolo»; in quest’ottica, tra l’altro, il post di Trump sulle rivolte del Minnesota non violerebbe le policy contro hate speech e messaggi che incitano alla violenza anche in considerazione del fatto che era stato lo stesso presidente a tornare sui propri passi, con un secondo post chiarificatore in cui spiegava che si trattava di un semplice avvertimento rispetto alla possibilità che i saccheggi dessero il via a una spirale di violenza. Sempre Zuckerberg avrebbe ricordato che le stesse policy in rispetto delle quali non sono stati segnalati o nascosti messaggi controversi, come quelli postati dal presidente degli Stati Uniti, hanno permesso a milioni di utenti di venire a conoscenza della morte di George Floyd e, ancora, con riferimento esplicito all’ipotesi paventata da Trump su Facebook e su Twitter di mandare la Guardia Nazionale a Minneapolis e nelle altre città in rivolta, avrebbe sottolineato una sorta di dovere in capo a chi gestisce un servizio come Facebook di avvertire le persone rispetto a una possibile «azione di Stato» e, cioè, alla volontà del governo o di chi per lui di risolvere con la forza questioni di interesse pubblico.

Più lieve l’apertura di Menlo Park rispetto alla possibilità di cambiare, in senso restrittivo e interventista, la policy di Facebook rispetto al fact-checking sui post dei politici, a ben guardare la ragione principale per cui i dipendenti di Facebook scioperano e una delle decisioni riguardanti la campagna elettorale per le prossime presidenziali americane che più aveva destato dubbi tra commentatori ed esperti del settore. Al momento, infatti, come riporta ancora The Verge, Zuckerberg avrebbe solo annunciato la possibile apertura di un hub informativo, il cosiddetto «voter hub di Facebook», simile di fatto a quello predisposto per raccogliere notizie verificate sull’emergenza coronavirus, per combattere quei «cattivi attori» che diffondono notizie controverse, scorrette o potenzialmente in grado di inquinare le operazioni di voto.

Da Facebook, insomma, sembrano consapevoli del momento concitato e del rischio di «escalation violenta e agitazione civile» – queste le espressioni scelte da Zuckerberg in prima persona – che l’America soprattutto sta vivendo. Sembrano però non altrettanto pronti – o disposti, almeno – a prendere posizione netta come hanno già fatto invece, anche proprio in riferimento al caso George Floyd, molte altre aziende.

brand activism tech company vs facebook

Molte aziende, anche del mondo del tech, hanno preso posizione sulla morte di George Floyd e sulle rivolte del Minnesota.

Netflix inclusa, che ha giocato il suo intero messaggio di vicinanza alle ragioni della Black community americana sulla scusante dell’essere solo gestori di una piattaforma, spesso usata come giustificazione in casi simili da Zuckerberg.

Lo scacco più grave, comunque, sembra arrivare dagli scienziati della Chan Zuckerberg Initiative che hanno firmato una lettera aperta al CEO di Facebook in cui chiedono allo stesso di «prendere in considerazione policy più stringenti su misinformazione e un linguaggio incendiario che può ferire le persone» e, con particolare riferimento ai fatti del Minnesota, lo invitano a stare «dalla parte delle verità e, soprattutto, dalla parte giusta della storia». Il lassismo della piattaforma nei confronti di alcuni contenuti postati dal presidente Trump, continuano gli scienziati – sono oltre 140, tra cui premi Nobel per diverse discipline e accademici delle più importanti istituzioni universitarie americane – è incompatibile con l’obiettivo della charity, che vale la pena ricordare a questo punto è direttamente finanziata da Facebook, di usare la tecnologia per prevenire e sconfiggere le malattie, migliorare l’educazione infantile e promuovere riforme del sistema della giustizia.

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