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È la prima volta che Twitter segnala un tweet di Trump come infondato

twitter banna trump

Prima volta che Twitter segnala un tweet di Trump: le motivazioni dietro alla decisione di Dorsey, la campagna elettorale e alcuni sospetti.

È la prima volta che Twitter segnala un tweet di Trump come «infondato» e la scelta della piattaforma, come prevedibile, ha fatto discutere e diviso opinione pubblica, media, altri esponenti politici. Fin qui infatti l’approccio di Dorsey e del suo team era stato quello di non intervenire sui contenuti postati dai politici – o da altri personaggi famosi con milioni di follower – perché ritenevano «importante che il mondo vedesse come i leader globali pensano e agiscono». Perché, allora, questa apparente inversione di rotta?

Infondato: così Twitter segnala un tweet di Trump per la prima volta

Un’etichetta per segnalare i tweet contenenti fake news, hate speech e più in generale contenuti inappropriati, in realtà, esisteva da tempo: per far fronte alla infodemia di notizie non verificate o manipolate, durante l’emergenza coronavirus la piattaforma dei cinguettii si è solo ritrovata a usarla più sistematicamente. La vera novità, insomma, non è il bollino con tanto di punto esclamativo con cui Twitter segnala un tweet di Trump, né il link da seguire per ottenere più informazioni o «informazioni di contesto» – così le hanno definite dei portavoce di Twitter su The New York Times – sulle dichiarazioni del Presidente: è, anzi, il modo in cui funzionano la maggior parte delle iniziative contro le fake news e le operazioni di fact-checking predisposte negli anni dalle diverse piattaforme social.

twitter segnala un tweet di Trump sul voto via posta

Un bollino azzurro con un punto esclamativo segnala come “unsubstantiated” il tweet di Trump sulle operazioni di voto via posta e rinvia l’utente a una pagina di approfondimento sulle stesse, compilata da Twitter e CNN.

Inedito è, semmai, il fatto stesso di intervenire sulla dichiarazione controversa di un politico. Perdipiù se è quella di un politico come Trump, non nuovo a giocare con frasi provocatorie – tra le più recenti, il consiglio di iniettarsi disinfettante come cura contro il coronavirus – o con errori studiati ad arte – famoso è il «covfefe» che inaugurò la stagione dei tweet tanto compulsivi quanto non sempre comprensibili del presidente americano – e contenuti volutamente controversi, destinati a catalizzare l’attenzione e a essere ripresi quasi automaticamente dalla stampa internazionale.

Quella finita nell’occhio del ciclone in queste ore è una dichiarazione sul voto via posta, definito «sostanzialmente fraudolento» da Trump, che non ha risparmiato neanche le accuse dirette nei confronti del governatore della California, legate al presunto invio di schede elettorali anche a cittadini che non ne avevano diritto e ai tentativi di influenzare  indirettamente il voto. Per la prima volta, insomma, Twitter segnala un tweet di Trump, ma il tweet non è certo tra i più controversi – né tra i più pericolosi a livello sociale – condivisi da un presidente che vanterebbe oltre 18mila fake news diffuse in campagna elettorale e durante il mandato e che è stato nominato dalla BBC come campione di bufale tra i politici. Il dubbio, legittimo, è: perché?

Segnalare un tweet di Trump può rendere più trasparente la campagna per le presidenziali 2020?

Le presidenziali alle porte (non è ancora ben chiaro, però, se le elezioni del presidente americano saranno spostate a causa del coronavirus) potrebbero essere state un fattore determinante. Già da qualche mese, del resto, le diverse piattaforme hanno stabilito policy e linee guida per contenuti organici e, soprattutto, annunci e sponsorizzazioni legati alle presidenziali 2020, per garantire la maggior trasparenza possibile e scongiurare ingerenze di qualsiasi sorta sul voto o, peggio, nuovi Cambridge Analytica.

Molto più praticamente? Persino Facebook, che ha esplicitamente dichiarato che non farà fact-checking sulle dichiarazioni dei politici, continuerà comunque a usare la sua squadra di fact-checker esterni e a penalizzare nell’algoritmo quei contenuti fuorvianti che riguardino direttamente le operazioni di voto e il loro regolare svolgimento. Se Twitter segnala un tweet di Trump in cui Trump dà informazioni poco precise o non veritiere su una determinata modalità di voto, insomma, la logica potrebbe essere la stessa, tanto più che seguendo il link associato al bollino azzurro sul tweet presidenziale si accede a una pagina, realizzata ancora secondo la ricostruzione di The New York Times da Twitter in collaborazione con CNN, in cui sono raccolte informazioni aggiuntive e approfondimenti sulla modalità di voto via posta in America.

Certo, Dorsey e la propria squadra potrebbero aver ceduto, dopo anni, alle pressioni di chi chiedeva maggiore impegno da parte delle big del digitale per fermare il dilagare di disinformazione durante le campagne elettorali e, più in generale, per favorire un discorso pubblico sano e meno viziato. Impegno che, però, come è stato sottolineato in più occasioni, potrebbe rappresentare un limite – non previsto, né da parte di soggetti legittimati – al primo emendamento della costituzione americana, quando parla di libertà di espressione e, più in generale, alla libertà di pensiero – prevista da tutte le costituzioni democratiche – se non addirittura, nel sistema italiano, alla libertà di espressione dei parlamentari. Persino Zuckerberg ha duramente condannato la scelta di Twitter di bannare Trump definendola, in un’intervista su Fox News, il tentativo di porsi «ad arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online». Altrettanto dura, però, la posizione del CEO di Facebook nei confronti delle minacce di Trump alle big digitali: «un governo che scelga di censurare una piattaforma perché preoccupato per la censura, non dovrebbe censurare a sua volta», ha chiosato.

Tra ripicca e azioni concrete, quanto è realistica la minaccia di Trump di chiudere Twitter?

Se la notizia è che Twitter segnala un tweet di Trump per la prima volta, infatti, è anche che il presidente americano ne ha approfittato per annunciare di voler chiudere le piattaforme social se sarà impossibile «regolamentarle rigidamente», dopo aver visto nella decisione di Twitter un tentativo di gettare nella spirale del silenzio «le voci conservatrici» e di ingerire in questo modo sul voto americano.

Non è la prima volta, certo, che Trump accusa Twitter di provare a manipolare le elezioni presidenziali. A prova della propria volontà di fare sul serio, però, dopo le dichiarazioni di una portavoce della Casa Bianca, riportate da La Repubblica il 28 maggio scorso, rispetto all’esistenza di un decreto riguardante misure restrittive per le piattaforme social in via d’approvazione, la firma del Presidente americano su un ordine esecutivo per la prevenzione della censura online è arrivata davvero in quella stessa serata. Di fatto il provvedimento rende più facile procedere per vie legali quando piattaforme come Twitter o Facebook cancellino, modifichino, bannino od operino qualsiasi altra forma di moderazione su contenuti già postati dagli utenti, specie se, per usare le parole di Trump, «fanno dell’attivismo». Lo stesso Trump, del resto, ha rimarcato più volte la propria convinzione che le big del digitale, non solo siano portatrici di interessi e di un’agenda progressisti ma abbiano sistematicamente «preso di mira repubblicani, conservatori e il Presidente degli Stati Uniti».

Di fronte alla minaccia che lo stesso ordine esecutivo possa essere bloccato dai ricorsi in tribunale, così, il presidente con da sempre più cinguettii all’attivo ha minacciato addirittura di essere disposto a chiudere definitivamente il proprio account Twitter.

Da Dorsey non c’è stato, d’altro canto, segnale di cedimento: il patron di Twitter ha confermato, infatti, che la piattaforma continuerà a «segnalare informazioni errate o contestate sulle elezioni a livello globale» e che, alludendo all’accusa di Zuckerberg, non si tratta di volersi assurgere ad «arbitro della verità», ma di «mostrare le informazioni controverse in modo che le persone possano giudicare da sole». Altrettanto chiaro è stato su ruolo e responsabilità rispetto al fact-checking: serve a garantire «una maggiore trasparenza […] in modo che la gente possa chiaramente vedere la ragione dietro le nostre azioni» e, in ultima istanza, la responsabilità per come viene fatto non può che essere personale del CEO, da qui l’invito a «lasciar fuori i dipendenti».

Quei tweet allusivi di Trump e la qualità del tempo passato sui social

Questo botta e risposta tra il Presidente americano, la stampa e i rappresentati delle piattaforme social ha nel frattempo distolto l’attenzione dal vero caso che potrebbe aver spinto Twitter a bannare, seppure simbolicamente, il presidente americano. È di metà maggio un tweet in cui Trump allude a dei «cold case» (in criminologia si tratta di delitti irrisolti, generalmente fatti di sangue per cui non si è mai trovato l’assassino) in cui sarebbe coinvolto Joe Scarborough, suo storico nemico politico e rappresentante al Congresso della Florida.

Tweet dopo il quale Dorsey e Twitter si erano visti indirizzare una lettera, poi diventata piuttosto virale, in cui il marito della presunta vittima, Lori Kaye Klausutis, allora assistente del politico, spiegava le cause assolutamente naturali e dovute a una malformazione congenita per la morte della moglie e chiedeva alla piattaforma di fare qualcosa contro «bugie orribili» e «indicibilmente crudeli» come quelle indirizzate da un presidente degli Stati Uniti a «quasi 80 milioni di follower».

twitter segnala un tweet di Trump caso scarborough

La lettera in cui il marito di Lori Kaye Klausutis spiega le reali ragioni, fisiologiche, della morte della moglie. A metà maggio Trump aveva fatto allusione al fatto che fosse stata vittima di un “cold case” con protagonista il congressista Joe Scarborough. Fonte: repubblica.it

Poco avevano potuto fare allora da Twitter che, come già si accennava, non è solito cancellare o bannare tweet degli account verificati. Che cominciare a segnalare un contenuto controverso, anche se condiviso dal presidente americano, oltre ad assicurare un clima più disteso di preparazione alle urne, sia un tentativo di difendere il proprio brand e, almeno simbolicamente, la qualità del tempo speso dagli utenti sulla piattaforma?

La risposta sembrerebbe essere sì se si considera l’ultimo atto della querelle tra Twitter e Trump. Il social dei cinguettii, infatti, ha parzialmente oscurato il tweet con cui il presidente americano commentava i disordini di Minneapolis.

twitter censura tweet di Trump su Minneapolis

Poche ore dopo aver segnalato, per la prima volta, un tweet di Trump come “fuorviante”, Twitter ha nascosto parte del commento del Presidente americano sui fatti di Minneapolis.

«Quando iniziano i saccheggi, si inizia anche a sparare» recita la parte non più visibile del messaggio ma, come hanno sottolineato dalla piattaforma, non si tratterebbe di vera e propria censura dal momento che la frase che viola gli standard di comunità è stata solo coperta da un avviso su cui si può comunque cliccare per leggere il testo integrale del tweet o, ancora una volta, per ricevere più informazioni o informazioni di contesto rispetto alla dichiarazione controversa. Nel frattempo, certo, è limitata la possibilità di interagire col tweet con like, retweet o risposte per limitarne la visibilità e dare più opportunità agli utenti di informarsi sui fatti in questione a partire da fonti neutrali.

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