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Con "TETTE FUORI" CHEAP denuncia la sessualizzazione di cui è vittima il corpo femminile (anche) in Rete
Per la campagna, realizzata in collaborazione con "School of Feminism" sono stati stampati manifesti che ricordano da vicino quelli pubblicitari e rappresentano seni femminili di ogni forma, dimensione, età: invitano all'autodeterminazione e a "liberare le tette" in un contesto che è ancora quello di estrema oggettificazione del corpo della donna che si traduce anche nella censura dei capezzoli femminili sui social.
Riprende un tema vecchio (quasi) quanto la storia del web sociale la campagna “TETTE FUORI” di CHEAP: la mancanza di un “giusto mezzo” tra la totale censura e l’ipersessualizzazione del corpo femminile nello spazio pubblico e in particolar modo in Rete, negli ambienti digitali, nella comunicazione pubblicitaria.
Un progetto di arte pubblica contro la sessualizzazione del corpo femminile in Rete (e non solo)
Le domande che le fondatrici di questo progetto di public art si pongono e soprattutto sembrano voler porre a chi, inconsapevolmente e un po’ “a sorpresa” – proprio come “di sorpresa” si incappa in una qualsiasi campagna di out of home advertising – si ritrova davanti ai nuovi manifesti di CHEAP sono tante:
«quando il petto di una bambina diventa seno? Perché si può mostrare il seno di un uomo ma non quello di una donna? Una donna senza seno è meno donna? Quando il seno di una donna trans diventa una tetta che è proibito mostrare? […] Perché sulle copertine delle riviste o nelle pubblicità vengono mostrati seni di donne iper sessualizzati ma è un problema il seno di una donna che allatta un* bambin*?»
I temi insomma sono quelli da sempre cari all’attivismo di genere: il male gaze – ossia uno sguardo stereotipato, che sessualizza e oggettivizza il corpo femminile, da sempre foriero di stereotipi di genere in pubblicità – e la necessità di normalizzare quello stesso corpo femminile.
La campagna “TETTE FUORI” è ispirata, del resto, a “¡Pechos Fuera!”, un saggio su come l’arte in passato e il mondo della comunicazione più di recente hanno contribuito a far affermare una rappresentazione distorta ed eccessivamente “genitale” del seno femminile: a curarlo era stato lo scorso anno “School of Feminism”, una piattaforma che ha come obiettivo proprio quello di dare una veste grafica e un visual accattivante alle più classiche teorie femministe (qualcuno la ricorderà per una campagna del 2019 non meno provocatoria dal titolo “Ringrazia una femminista”) e che ha collaborato ora anche alla realizzazione della nuova campagna di CHEAP.
Una foto diversa di Margherita Caprilli campeggia, infatti, su ogni manifesto della campagna “TETTE FUORI” affisso, proprio come una qualunque affissione pubblicitaria, in una via del centro di Bologna.
Come la campagna “TETTE FUORI” ha riempito il centro di Bologna di immagini di seni contro la censura del nudo femminile in Rete
Seni preadolescenziali e ancora in via di sviluppo si affiancano ai seni rifatti di chi ha intrapreso un percorso di modifica del sesso, a quelli segnati dalle smagliature di chi sta allattando, a mammelle di ogni forma e dimensioni e, ancora, alle cicatrici portate con orgoglio da chi ha subito un intervento di mastectomia.
Un inno, visivamente potente, alla body positivity ma anche all’autodeterminazione: «il tuo seno. Il tuo corpo. Decidi tu» e «se qualcun* si sente a disagio, che guardi dall’altra parte» recitano, infatti, due dei claim scelti per la campagna dalle attiviste di CHEAP, forse un po’ “scimmiottando” la grammatica pubblicitaria, tanto nei linguaggi quanto nella scelta della font, ma in chiave positiva ed edificante.
C’è un visual in particolare, tra quelli della campagna “TETTE FUORI”, che mostra cosa succede ai capezzoli femminili su Instagram e, più in generale, sui social network : spariscono letteralmente; sono doppiamente cancellati dagli algoritmi che li censurano e da pittori, fotografi, altri artisti visivi che, nello sforzo di promuovere la propria arte sui social network, si vedono costretti a pixellare o a usare altre varianti sul genere per areole e capezzoli femminili.
Cos’hanno questi ultimi, però, di davvero diverso dai corrispondenti maschili? È quello che si chiedono le attiviste di CHEAP, che peraltro raccontano di aver visto censurato sulla propria pagina Facebook un album fotografico dedicato proprio all’installazione bolognese.
Non è la prima volta che accade qualcosa di simile. Non è la prima volta che gli algoritmi di Facebook non riconoscono e, anzi, censurano un nudo artistico femminile. Forse una delle occasioni più clamorose fu quella volta in cui Facebook bannò “L’origine del mondo” di Courbet e finì davanti a un tribunale francese per questo. Non si può certo dire che lo stesso avvenga con i nudi maschili protagonisti di opere artistiche di ogni tempo e di ogni stile: colpa di «un doppio standard», così si sono espressi spesso gli attivisti di genere, di cui spesso anche policy e linee guida su nudità e contenuti espliciti delle diverse piattaforme sono portatrici, più o meno intenzionalmente, ma contribuendo comunque a consolidare degli stereotipi sessisti.
Perché Facebook, Instagram e gli altri social censurano i capezzoli femminili (ma da anni ci sono campagne che incitano a “liberare le tette”)
Tra le clausole che gli iscritti hanno accettato e che ricordano loro che «il nudo non è ammesso su Instagram» si legge, per esempio, che questo “niet” «riguarda anche foto di capezzoli femminili», con la sola eccezione di «foto nel contesto di allattamento al seno, parto e momenti successivi al parto, situazioni correlate alla salute o atti di protesta». Nell’elencare i propri standard di comunità Facebook ammette di limitare «alcune immagini di seni femminili in cui i capezzoli sono visibili», con le sole stesse eccezioni che valgono su Instagram.
Non si può escludere che la ratio sia evitare o limitare la circolazione di contenuti espliciti o pornografici, specie se ottenuti senza consenso. La presenza dell’aggettivo “femminili” appare però così, se possibile, doppiamente discriminatoria: come se solo quando femminili queste parti del corpo avessero carica erotica e potessero trasformarsi in un oggetto del desiderio (dimostrazione degli effetti che hanno secoli di sessualizzazione e mercificazione del corpo femminile) e, come diretta conseguenza, come se solo la foto o l’immagine di un capezzolo femminile rischiasse di essere una foto o un’immagine offensiva e lesiva della dignità della persona ritratta se rubata o condivisa senza consenso.
Da anni, così, ci sono campagne per “liberare” i capezzoli femminili sui social. Al suon di #freethenipple, l’ hashtag in cui si riconoscono questi attivisti per una parità di genere che passi anche dalla pari libertà di mostrare il proprio corpo in Rete, sono stati postati negli anni fotomontaggi di capezzoli maschili su nudi femminili, selfie ironici con magliette che riproducevano graficamente dei capezzoli femminili e via di questo passo. Non sono mancate neanche le star – da Rihanna a Miley Cyrus – che hanno deciso di prendere parte alla protesta, spesso dopo essere state vittime in prima persona di censura da parte dei social network.
C’è chi si è spinto più oltre, con un’iniziativa simile negli obiettivi alla campagna “TETTE FUORI” di CHEAP, a dimostrare quanto identici siano fisiologicamente i capezzoli maschili e quelli femminili, aprendo un profilo Instagram su cui sono postate solo foto in primo piano di areole di cui è difficile dire se siano di un uomo o di una donna.
Non di rado e prima che le piattaforme annunciassero di intervenire per dissuadere e penalizzare anche i post contenti flirtmoji (ossia emoji utilizzate per il sexting o a cui è attribuito dagli utenti un certo significato esplicito) qualcuno ha provato a sottolineare anche quanto facile da aggirare fosse il divieto delle piattaforme sui capezzoli, utilizzando faccine ed emoticon che facilmente richiamavano l’idea di un seno o dei capezzoli.
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