Home / Macroambiente / Diritto d’autore e contenuti digitali: criticità e prospettive della Direttiva UE

Diritto d'autore e contenuti digitali: criticità e prospettive della Direttiva UE

Diritto d'autore e contenuti digitali: criticità e prospettive della Direttiva UE

Brusco rallentamento nell'iter relativo alla Direttiva UE di riforma del diritto d'autore per i contenuti digitali. Analizziamo le previsioni più discusse.

L’evoluzione delle tecnologie digitali ha cambiato non solo il modo in cui le opere dell’ingegno vengono prodotte, ma anche quello con cui vengono distribuite e sfruttate. I consumatori, in particolare, hanno potuto fruire di nuove opportunità di accesso a contenuti protetti dal diritto d’autore. Ciò ha determinato, come è facile intuire, da un lato una maggior facilità per gli autori di ottenere visibilità per le proprie opere, dall’altro una maggior difficoltà per autori ed editori di veder garantita una adeguata remunerazione per la fruizione dei contenuti. Proprio al fine di colmare questo value gap tra sfruttamento economico analogico e digitale delle opere dell’ingegno, la Commissione Europea ha predisposto, nel 2016, una proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico (n. 2016/0280).

L’iter legislativo, lungo e complesso, ha di recente subito una brusca battuta d’arresto che, complici anche le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo nella primavera del 2019, rende ad oggi praticamente impossibile ogni previsione sugli sviluppi futuri del progetto di riforma. In particolare, il 20 giugno 2018, la Commissione Giuridica (JURI) del Parlamento Europeo aveva approvato (con 14 voti favorevoli, 9 contrari e 2 astenuti) la bozza di Direttiva decidendo di avvalersi della particolare procedura delineata dagli articoli 69-ter e 69-quater del Regolamento di procedura (Negoziati Interistituzionali nel quadro della procedura legislativa ordinaria): in buona sostanza, la Commissione aveva votato per l’avvio di negoziati con la Commissione Europea ed il Consiglio (cd. Trilogo) al fine di agevolare ed accelerare, mediante un confronto tendenzialmente informale, il raggiungimento di un pieno accordo sul testo da adottare in seno ai tre organi dell’Unione che partecipano al procedimento legislativo. Almeno dal punto di vista previsionale, l’imbocco di questa “fast lane” avrebbe dovuto portare all’approvazione definitiva del testo nei primi mesi del 2019, con termine di recepimento per gli Stati membri al 2021. Tuttavia, date le roventi polemiche e la delicatezza della materia trattata, sulla decisione della Commissione di procedere con tali forme “snelle” è stato richiesta la votazione dell’assemblea. Il Parlamento Europeo si è allora riunito per deliberare sul punto il 5 luglio 2018 e, con orientamenti fortemente disomogenei anche all’interno dei singoli gruppi, ha respinto – con 318  voti contrari, 278 favorevoli e 31 astenuti – la decisione della Commissione sull’avvio di negoziati. La conseguenza del voto del Parlamento, però, è bene precisarlo, non è l’abbandono del progetto di riforma, ma semplicemente il ritorno alla proceduraformale” (ovverosia senza i negoziati del Trilogo) ed infatti il progetto di atto legislativo e la relazione della commissione competente sono stati iscritti all’ordine del giorno della tornata successiva del Parlamento, cioè per il prossimo settembre.

Proprio in ragione del fatto che la procedura legislativa, sebbene con passo più lento, dovrebbe, almeno in teoria, proseguire nei prossimi mesi, è importante comprendere per quali ragioni contro la riforma in questione si sia da tempo levato un coro nutrito di critiche rafforzato, con riferimento all’Italia, dalla posizione assunta dal Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, il quale aveva addirittura paventato l’assunzione di una posizione di aperta rottura, minacciando di non recepire la Direttiva (il che, vale la pena precisarlo, esporrebbe l’Italia ad una procedura di infrazione e, quindi, alla eventuale irrogazione di pesantissime sanzioni economiche). La ragione dell’avversione da più parti manifestata alla proposta di Direttiva risiede nel fatto che si teme per essa una gravissima eterogenesi dei fini: immaginata per garantire una migliore tutela della dimensione autoriale e patrimoniale delle opere dell’ingegno su Internet, il risultato concreto che i fautori della posizione critica vaticinano è un vero e proprio annullamento della libertà della rete, con discriminazioni e censure incontrollate.

Cerchiamo, allora, di analizzare i profili maggiormente discussi della (possibile) disciplina normativa ventura e, quindi, le ragioni che hanno portato il Parlamento a non approvare il testo così come proposto dalla sua Commissione Giuridica.

La “link tax”: rischio per utenti e piccoli editori o polverone ingiustificato?

Una delle previsioni più criticate della proposta di direttiva attiene alla cd. link tax. Va detto, infatti, che l’art. 11 del testo, relativo alla «protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale», prevede testualmente che «gli Stati membri riconoscono agli editori di giornali i diritti di cui all’articolo 2 e all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2001/29/CE per l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico».

Ebbene, si tratta semplicemente di una formulazione criptica con cui, attraverso il rinvio alla precedente direttiva in materia di diritto d’autore, si intende precisare che anche agli editori di giornali spetta il diritto di riproduzione e comunicazione delle opere, ovverosia la possibilità di regolarne, consentendola, condizionandola o vietandola, la diffusione. È chiaro, poi, che – trattandosi di norma di rapporti tra società commerciali – l’assenso alla divulgazione presupporrà quasi sempre la stipula di un contratto oneroso e a prestazioni corrispettive. Dunque, gli editori potranno pretendere un compenso nel caso in cui le pubblicazioni su cui detengono i diritti siano utilizzate da terzi in modalità digitale, ovverosia sul web. In questi termini, comunque, si tratterebbe di una previsione che poco o nulla aggiunge all’attuale assetto normativo di gran parte dei paesi dell’Unione. In Italia, ad esempio, la legge sul diritto d’autore – sebbene risalga ad oltre 70 anni fa (L. 633/41) – già prevede che siano considerati autori delle opere collettive (categoria giuridica in cui ricadono i giornali) coloro che organizzano dirigono le opere stesse (art. 7) e che il relativo diritto di utilizzazione economica spetti agli editori (art. 38).

E allora, se nulla si amplia per quanto riguarda la “platea” dei soggetti legittimati a ottenere la rimunerazione per l’utilizzo dei contenuti giornalistici, quale significato operativo potrebbe attribuirsi alla previsione in questione? Si è ritenuto, in effetti, che essa non incida sull’ambito soggettivo bensì su quello oggettivo, cioè sul novero di casi in cui è possibile da parte dei titolari del diritto d’autore pretendere la corresponsione di un compenso per la pubblicazione della notizia: la norma, infatti, varrebbe a legittimare la pretesa di una somma per la mera condivisione della notizia da parte degli utenti del web, magari proprio attraverso i  social network  ovvero per la sua messa a disposizione del pubblico da parte dei soggetti cdd. aggregatori, come ad esempio Google News. I profili di criticità che sono stati denunciati, quindi, sono essenzialmente due: da un lato, infatti, si è messo in rilievo che anche l’utente del web potrebbe risultare tenuto al pagamento di una somma a favore gli editori «for the online use of their press publications»; dall’altro lato si è paventato il rischio che, essendo gli aggregatori e i social tenuti in via generale alla corresponsione di una somma a favore degli editori, in difetto di accordo con i giganti del web i piccoli editori potrebbero essere tagliati fuori dai principali circuiti di divulgazione delle notizie in rete.

Il primo rischio, in verità, pare concretamente scongiurato dalla formulazione attuale della disposizione. E infatti, nella versione del 2016, così come elaborata dalla Commissione Europea, ci si riferiva genericamente all’utilizzo digitale delle pubblicazioni: si argomentava, quindi, che ogni qual volta un utente – oltre che fruire di una notizia – decidesse di “rilanciarla” ai suoi contatti (amici, followers, ecc.) ci si sarebbe trovati dinanzi a un utilizzo economicamente rilevante e tale, quindi, da giustificare una pretesa remunerativa da parte dell’editore. L’allarme lanciato comunque non appariva, peraltro, del tutto convincente: già dall’intervento tenuto dal presidente della Commissione, J. C. Junker, in occasione del discorso sullo stato dell’Unione del 2016, era emerso che la remunerazione fosse legata alla generazione di un «hyperlink commerciale sul web». La condivisione, quindi, per poter essere suscettibile di remunerazione, avrebbe comunque dovuto essere veicolata con un link che, oltre a incorporare immagini e anteprima, avesse avuto natura commerciale e cioè fosse risultato collegato a un rapporto contrattuale a titolo oneroso (ad es. una sponsorizzazione): tale non essendo ovviamente l’attività dei semplici utenti-fruitori delle notizie, la conclusione non poteva che essere nel senso della irrilevanza, in termini di fee dovuti, dell’azione di condivisione.

In ogni caso, comunque, la formulazione scrutinata dalla Commissione per gli Affari Giuridici ha eliminato ogni ambiguità, riferendo il riconoscimento dei diritti a favore degli editori di cui all’art. 11 (pag. 1) specificamente (e quindi esclusivamente) all’utilizzo online effettuato dai «prestatori di servizi della società dell’informazione», dunque non già a quello degli utenti di tali servizi. Le perplessità del Governo italiano sono state smentite anche dalla Commissione UE, che ha precisato come «i diritti proposti per gli editori non impatteranno sulla capacità della gente di fare link ai siti dei giornali online».

Editori e giganti del web: Davide contro Golia?

Il secondo profilo di criticità, come si è visto, riguarda poi proprio il rapporto che viene a crearsi tra editori e prestatori di servizi della società dell’informazione. La norma, infatti, condiziona l’utilizzazione delle pubblicazioni online al previo raggiungimento di un accordo tra l’editore e il prestatore di servizi online, in difetto del quale quest’ultimo non potrebbe mantenere sulla propria piattaforma i contenuti giornalistici: ebbene, come in parte già s’è detto, il timore è quello che solamente i grandi editori abbiano il potere economico tale da “costringere” i giganti del web (Facebook e Google su tutti) a stipulare un contratto per l’utilizzo delle proprie opere editoriali, mentre per gli editori di modesta portata (come ad esempio quelli “locali”) l’esito (involontario) della previsione normativa potrebbe essere quello di una generale rinuncia/rifiuto della piattaforma web a rendere disponibili (o aggregare) i contenuti in questione, con evidente grandissimo danno per gli editori, che si troverebbero de facto de-indicizzati sul web.

Per la verità, però, il problema andrebbe messo meglio a fuoco: la questione, infatti, è quella di capire quali siano i limiti del concetto di “utilizzo online delle pubblicazioni giornalistiche“. Se infatti un prestatore di servizi della società dell’informazione “importa” tout court un contenuto editoriale, è infatti indubbio che stia ponendo in essere uno sfruttamento economico dell’opera dell’ingegno altrui e ciò indipendentemente dalla nuova Direttiva. Il punto, però, non è usualmente questo: nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, le piattaforme si limitano a proporre un link ipetertestuale corredato di foto e sommario (cd. snippet). Ed è proprio questo l’uso che la Direttiva vorrebbe colpire, giacché se il sommario e l’immagine consentono di “esaurire” il profilo informativo saliente della pubblicazione, allora di fatto il prestatore si è avvantaggiato dell’opera editoriale altrui, distogliendo dall’editore i relativi introiti (questo perché, anche se nell’anteprima è incorporato il link che rimanda alla pagina web dell’editore, ove la notizia è già divulgata con lo snippet, l’utente molto spesso eviterà di cliccare sul collegamento ipertestuale): ecco dunque perché si è parlato di link tax. Beninteso, parlare di “tassa” è assolutamente inappropriato, giacché non viene in alcun modo in rilievo la leva fiscale, trattandosi di introiti che, in ogni caso, spetterebbero all’editore (e non allo Stato o all’UE, salve chiaramente le imposte sul lucro così generato).

Ciò precisato, la problematica è sicuramente di non scarsa portata, come dimostra l’esempio spagnolo: entrata in vigore nel 2014 una disciplina estremamente stringente relativamente al diritto d’autore, il risultato è stato che un aggregatore come Google News ha chiuso e, di conseguenza, i piccoli editori hanno visto grandemente compromessa la loro visibilità sul web. Tuttavia anche questi timori possono essere se non fugati quantomeno ridimensionati dalla lettura integrale dell’art. 11, vieppiù a seguito della riformulazione della Commissione del Parlamento UE. Va precisato, infatti, che il paragrafo 2 dell’art. 11 esclude la operatività del meccanismo in questione per il caso in cui il prestatore di servizi della società dell’informazione utilizzi “insubstantial parts of a press pubblication“. Dunque, allorché l’aggregazione o la divulgazione avvenga mediante l’evocazione non significativa dei contenuti della pubblicazione, è stabilito che l’editore non potrà far valere alcun diritto e, di conseguenza, il prestatore di servizi della società dell’informazione potrà fruirne senza dover corrispondere all’editore alcunché. Resta poi devoluto ai singoli Stati Membri, al momento del recepimento della Direttiva sul diritto d’autore, il compito di precisare i criteri di identificazione della dimensione sostanziale o meno del contenuto pubblicato. Quel che rileva, in ogni caso, è che in concreto a social network e aggregatori di notizie basterà utilizzare solamente le insubstantial parts per evitare di essere sottoposti a quella che – impropriamente – si è definita link tax.

Beninteso, per quanto riguarda i rischi di distorsione dell’informazione nulla vieta che gli editori che avranno un rapporto contrattuale con il prestatore di servizi possano beneficiare di una posizione “di vantaggio” in termini di visibilità a discapito di quelli privi di un rapporto negoziale (e le cui notizie sono proposte al pubblico solo mediante le insubstantial parts), ma qui il problema diviene diverso e non riguarda più la Direttiva in materia di diritto d’autore, bensì la questione della presunta “neutralità” dei soggetti che, a vario titolo, governano il web.

La scomparsa del mere conduit per il diritto d’autore

Roventi polemiche ha poi suscitato l’art. 13 della proposta di Direttiva sul diritto d’autore, che è stato addirittura additato come “macchina della censura“. In particolare, il casus belli è stato individuato nelle previsioni del secondo paragrafo dell’articolo in predicato, ove si stabilisce che l’online content sharing service provider è tenuto a dotarsi dell’autorizzazione dell’avente diritto quando trasferisce o rende disponibili al pubblico opere dell’ingegno. Ove tale autorizzazione non sia ottenuta – ed è questo il principale punto critico – il provider deve impedire la disponibilità dell’opera sulla sua piattaforma. Dunque, il fornitore di servizi di condivisione online sarebbe chiamato, anche attraverso apposite misure tecnico-informatiche da impiegare secondo criteri di efficacia, proporzionalità ed adeguatezza) a operare una sorta di vaglio preventivo: dovrebbe, in altri termini, dotarsi di strumenti che siano in grado di verificare istantaneamente se per i contenuti caricati da ciascun utente vi sia il consenso del detentore dei diritti d’autore (e/o di sfruttamento economico) e, in caso negativo, impedire la messa a disposizione sulla piattaforma del contenuto.

Due quindi i pericoli che da tale disciplina si ritiene possano derivare: in primo luogo, un “vaglio preventivo di liceità” del contenuto da parte del provider, con la conseguenza che questi diventerebbe il “censore” del web; in secondo luogo il rischio che vengano estromessi dalla rete tutta una serie di contenuti per i quali è oggettivamente molto difficile individuare la titolarità dei diritti d’autore.

Con riferimento alla prima criticità, in buona sostanza si ha che l’online content sharing service provider (che altri non è se non un particolare fornitore di un servizio della società dell’informazione che abbia come unico o principale scopo quello di memorizzare e fornire al pubblico l’accesso a una grande quantità di opere o altri materiali caricati dai suoi utenti, contenuti che organizza e promuove a scopo di lucro – art. 2 par. 5 Proposta di Direttiva), essendo chiamato a rispondere della illiceità dei contenuti veicolati dagli utenti sulla propria piattaforma, verrebbe privato di quella irresponsabilità che è riconosciuta agli altri fornitori di servizi della società dell’informazione: verrebbe meno, in altri termini, lo status di cd. mere conduit di cui all’art. 14 del D. Lgs. 70/2003 di recepimento della Direttiva 2000/31/CE. Questa responsabilizzazione, tuttavia, è acremente criticata, perché (come già illo tempore sì osservò per giustificazione l’opportunità di riconoscere l’irresponsabilità del mere conduit) dà luogo a un gravissimo “effetto collaterale”: se il prestatore può essere chiamato a rispondere dei contenuti caricati dagli utenti, egli sarà costretto a un penetrante scrutinio preventivo sugli stessi, stabilendo pertanto cosa potrà essere diffuso in rete. Si mette in moto, per tali vie, una vera e propria censorship machineper di più affidata a soggetti privati e che operano per fini di lucro.

Sotto altro profilo, poi, si è anche affermato che – indipendentemente dalle eventuali finalità-bavaglio dell’online content sharing service provider – la norma de qua in buona sostanza rischierebbe di mettere al bando dai social network contenuti quali i popolarissimi meme: ciò in primo luogo in quanto, come si diceva, una volta divenuti virali, non sarebbe più agevole identificare il creatore degli stessi; in secondo luogo, poiché gli algoritmi di identificazione che le piattaforme web potrebbero mettere in campo (come ad esempio quelli finalizzati ad identificare le copie “pirata” dei brani su YouTube) incontrano enormi difficoltà nel distinguere ed “isolare” quelle rielaborazioni-ricondivisioni di contenuti (protetti dal diritto d’autore) basate su finalità di parodia, satira o pura goliardia.

I problemi derivanti dall’art. 13 sono allora forse più gravi ed urgenti di quelli, diversamente superabili, recati dall’art. 11 della adottanda Direttiva di riforma del diritto d’autore online. Ciononostante, alcuni elementi utili a ridimensionare i timori di un imminente de profundis del web così come lo conosciamo possono comunque essere valorizzati. Anzitutto, posto che di norma il soggetto che carica in rete un contenuto ne va reputato autore ai sensi dell’art. 8 della Legge 633/1941 e posto che al momento dell’iscrizione ad una piattaforma social si attribuisce all’online content sharing service provider la piena autorizzazione alla memorizzazione dell’opera sulla piattaforma stessa, può affermarsi che l’obbligo di preventiva acquisizione di autorizzazione da parte del soggetto che (appare) autore del contenuto possa dirsi per tali vie soddisfatto e quindi il problema dell’azione dell’ipotizzata censorship machine resterebbe superato: esso, infatti, si impernia sul dovere di valutazione (per l’eventuale blocco o rimozione) solo dei contenuti per i quali il provider non dispone della occorrente autorizzazione, mentre per i contenuti caricati dagli utenti, almeno in via presuntiva, dovrebbe risultare che tale autorizzazione sussista. In conclusione, solo per i casi macroscopici in cui è evidente che l’utente non è autore (ad es., upload del brano di una nota cantante ovvero messa a disposizione di un quotidiano) si potrebbe sostenere che l’online content sharing service provider sia consapevole di non disporre dell’occorrente autorizzazione e quindi pretendere che questi impedisca il caricamento del contenuto sulla piattaforma. Resta comunque irrisolto il problema di comprendere in che termini e con che approfondimento il provider debba scrutinare il contenuto delle opere dell’ingegno caricate dall’utente per mezzo della sua piattaforma

In ogni caso, va valorizzato un ulteriore profilo. Va rimarcato, infatti, come l’atto-fonte in predicato sia (rectius, sarà), come detto, una Direttiva (ancorché dettagliata, ma comunque non un Regolamento, come ad esempio il GDPR): di conseguenza, l’esatta portata delle disposizioni “incriminate” sarebbe comunque apprezzabile solo allorquando fossero disponibili gli atti di recepimento adottati dai diversi legislatori nazionali. Ebbene, posto che nell’adozione di tali atti occorrerà fare ossequio alle previsioni in tema di libertà di pensiero e di espressione recate dagli artt. 9-10 della CEDU, artt. 10-11 della Carta di Nizzaartt. 18-19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e, per quanto concerne specificamente l’Italia, dagli artt. 2-3-21-41 della carta costituzionale, resta evidente che non potranno che proporsi normative di dettaglio che vadano a declinare in senso restrittivo i poteri di censura” eventualmente riconoscibili a favore degli online content sharing service provider.

© RIPRODUZIONE RISERVATA È vietata la ripubblicazione integrale dei contenuti

Resta aggiornato!

Iscriviti gratuitamente per essere informato su notizie e offerte esclusive su corsi, eventi, libri e strumenti di marketing.

loading
MOSTRA ALTRI