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Codice etico per influencer e contenuti #sponsored: che effetti per il coinvolgimento della community?

Codice etico per influencer e contenuti #sponsored: che effetti per il coinvolgimento della community?

C’è un codice etico per influencer che invita a segnalare quando i post sono sponsorizzati o prevedono retribuzione. Quali gli effetti sull'engagement?

Non è la prima volta che succede; era già successo, per esempio, quando i primi testimonial vip cominciarono a occuparsi di sponsorizzazioni e promozioni sulla carta stampata o in televisione: fu lo stesso dilagare della pratica a rendere indispensabili forme di regolamentazione che si andarono definendo e perfezionando passo dopo passo. Allo stesso modo, quando si parla di un codice etico per influencer , ossia di misure e buone pratiche che permettano all’utente di riconoscere subito un post come frutto di una collaborazione retribuita tra brand e influencer, non si può fare a meno di notare che la decisione della FTC americana, seguita a ruota da quella dello IAP, non sono che punti di partenza di un percorso lungo e dalle evoluzioni ancora difficili da prevedere.

Cosa ha reso indispensabile un codice etico per influencer e in cosa consiste

È trascorso appena un anno (era l’aprile 2017, ndr) del resto da quando l’authority americana per il commercio aveva spinto gli influencer a dichiarare «in maniera chiara ed evidente» quando erano pagati dalle aziende per realizzare un post o un video. Su quella scia, l’Istituto per l’Autodisciplina Pubblicitaria aveva proposto che quando il fine promozionale del contenuto di un blogger o di un influencer non fosse «già chiaramente riconoscibile dal contesto» venisse segnalato in altro modo.

In entrambi i casi il motore d’azione fu con ogni probabilità la «questione dei compensi», come spiega in un’intervista ai nostri microfoni Paola Nannelli, head of influencer marketing di Blogmeter. «Fino a 8-10 anni fa, quando si iniziava a parlare di blogger, questi personaggi non avevano retribuzione; ora i cachet sono notevolmente aumentati, alcuni di loro hanno aperto partite IVA o, comunque, hanno degli introiti a tutti gli effetti dalle loro attività social, per questo è diventato necessario creare delle regole».

Quando la collaborazione tra brand e influencer è questione di trasparenza

Regole che fino ad ora non hanno avuto il controcanto di pene pecuniarie o sanzionatorie essendo, com’è chiaro soprattutto nel caso italiano, frutto soltanto di autoregolamentazione. Ciò non significa comunque che non siano stati fatti degli importanti passi avanti in materia di maggiore trasparenza nei confronti di chi frequenta i social network: la community degli influencer si è inventata, infatti, una grammatica fatta di hashtag come #ad, #adv, #sponsored e ha preso a utilizzarla quando dal contenuto o dal contesto non risultasse abbastanza chiaro che ci fossero in gioco collaborazioni, retribuite, con brand, aziende e altri soggetti business. Alcuni dati ancora di Blogmeter su trasparenza, codice etico per influencer e impatto sull’ engagement delle community sembrano confermarlo: da marzo a ottobre 2017 i post segnalati come sponsorizzati hanno registrato, a livello globale, un aumento percentuale di circa il 44% (fino a giugno 2017 erano circa 11,5 mila su un totale di 770mila post presi in esame, mentre nei restanti mesi erano oltre 16,5mila su 704,5mila, ndr). Guardando ai soli influencer italiani, il quadro appare ancora netto: dopo la pronuncia della Federal Trade Commission, c’è stato un aumento del 285% di post sponsorizzati e segnalati tramite gli appositi hashtag (erano infatti circa 1,8 mila su 274,5 mila tra marzo e giugno, mentre da luglio ad ottobre sono risultati quasi 7mila su 245mila, ndr). Per ogni influencer che ha deciso di rendere pubbliche le sue collaborazioni con brand e aziende in un atto di assoluta trasparenza, e in qualche misura anche di lealtà nei confronti dei suoi seguaci, ce n’è certo un altro che è ancora restio a svelare quando è stato pagato per un post, per promuovere o farsi ambassador di un marchio o di un prodotto. Uno studio più recente della Princenton University, infatti, avrebbe sottolineato come soltanto il 10,7% dei video su YouTube e dei pin su Pinterest hanno elementi scritti che ne chiariscano la natura commerciale, nonostante contengano un link affiliate.

Quanto contano, in questo, le dimensioni della fanbase dell’influencer o la sua esperienza pregressa nel settore? Gli influencer più grandi, «quelli che possono godere di un team o sono seguiti da agenzie di talent o ancora lavorano con le multinazionali sono in genere più ligi a seguire la regolamentazione», sottolinea Paola Nannelli. Non a caso Chiara Ferragni, tra gli italiani, ha più che raddoppiato il numero di post segnalati come #sponsored o #adv nel momento in cui si è alzato il dibattito rispetto a un codice etico per influencer e qualcosa di simile è avvenuto a livello internazionale con Kylie e Kendall Jenner. Un po’ più difficile è interpretare cosa sta avvenendo nel panorama dei micro-influencer  che hanno, del resto, obiettivi in parte diversi da quelli degli influencer tradizionali e, cioè, «non far diventare la community troppo grande a livello di numeri e mantenerla invece quanto più possibile ristretta e fedele», come sottolinea ancora l’esperta. Non può stupire, allora, che alcuni di loro li utilizzino e non abbiano nessuna remora a dichiarare se hanno ricevuto una retribuzione o meno, mentre altri preferiscono non farlo.

Perché i post #sponsored non incidono, in negativo, sul coinvolgimento della community

Altri tipi di ragionamento richiedono di provare a indagare che effetti abbia questa trasparenza imposta dall’alto sul coinvolgimento e la partecipazione della community. I risultati di Blogmeter sono interessanti anche in questo senso e partire da top influencer come Chiara Ferragni o le Kardashian aiuta a rendere il tutto di più immediata comprensione. La fondatrice e CEO di The Blonde Salad, nel periodo di riferimento dell’indagine, ha registrato una media di 238mila interazioni per i post non sponsorizzati e 221,7mila per quelli contenenti invece gli hashtag di sponsorizzazione. Con lo stesso riferimento temporale, ma senza che sia possibile inferire comunque nessi causali diretti, l’engagement generato dalla fashion blogger è risultato in aumento di oltre il 137% (passando da 8,1 milioni di interazioni tra marzo e giugno a 19,4 milioni tra luglio e ottobre, ndr).

Cioè è stato possibile in prima analisi perché «influencer come questi hanno deciso di raccontare altro, oltre a quello che raccontano con i post sponsorizzati. Il principio è un po’ quello delle riviste: al loro interno si trovano contenuti veri e propri e pubblicità, ma questo non significa che si smette di comprare le riviste a causa dell’advertising contenuta al suo interno. Anche in quel caso, tra l’altro, c’è chi è più bravo e chi meno bravo a fare pubblicità. Allo stesso modo, allora, l’influencer deve trovare spazio all’interno del suo piano editoriale per qualcosa che non sia di disturbo per la propria audience. Quanto più bravo è l’influencer a mixare tra contenuti organici (che abbiano a che fare per esempio con la sua vita, i suoi interessi, i suoi viaggi, eccetera) e contenuti promozionali, tanto più l’engagement rimarrà inalterato», spiega ancora Paola Nannelli.

L’ipotesi di un codice etico per influencer, insomma, ha avuto tra le conseguenze dirette il riuscire a tratteggiare meglio i contorni di un fenomeno come l’influencer marketing.

A partire dalla presa consapevolezza che non è più appannaggio esclusivo del mondo del fashion: tutti i settori, o quasi, hanno ormai i loro influencer di riferimento che possono essere sfruttati in maniera strategica per entrare in contatto con clienti o potenziali tali. Le aziende hanno cominciato a capirlo e una spinta sembra essere venuta, soprattutto in Italia, dalle realtà che operano nei mercati esteri dove c’è già maggiore comprensione, e di conseguenza maggiore regolamentazione, del fenomeno. Uno dei punti fondamentali da comprendere? È che «il contenuto sponsorizzato da solo non è efficace – conclude l’esperta – e piuttosto si dovrebbe essere in grado di integrare l’influencer marketing all’interno di un piano social, se non addirittura di un piano di comunicazione, più ampio. Molte aziende lo stanno già facendo molto bene, pur non dimenticando le altre leve del marketing. E, soprattutto, ciò sta funzionando perché siamo nella cosiddetta Era People: le persone quando hanno qualcosa da raccontare possono essere anche molto più interessanti dei marchi sui social, che invece tendono ad essere considerati come degli intrusi all’interno dei social media, proprio perché questi ultimi nascono come “luoghi” di condivisone tra persone. La vera sfida è, allora, fare in modo che attraverso gli influencer il nostro messaggio possa arrivare in maniera diversa, con un tono di voce meno corporate. Gli influencer, del resto, non sono altro che persone che hanno storie da raccontare, anche quando la loro è a tutti gli effetti un’attività di advertising».

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