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Quelle relazioni pericolose tra fake news e aziende che danneggiano consumatori, mercati, reputazione

Fake news e aziende: come prevenirle e combatterle

Quando si parla di fake news e aziende si parla di disinformazione che fa male ai consumatori ma anche ai mercati e alla brand reputation.

Quasi un’azienda su due in Italia è stata vittima di bufale, in non pochi casi anche ripetutamente e con più probabilità se il settore di riferimento è quello alimentare: sono questi gli insight più macroscopici su fake news e aziende dell’ultima pubblicazione di Centromarca dedicata al contrasto della disinformazione che ha come vittime le marche e i loro prodotti.

Fake news e aziende: quando la disinformazione colpisce i mercati

Lontane dall’essere un tema caldo solo per quanto riguarda il discorso pubblico e il suo stato di salute, notizie false e non verificate, infatti, non di rado coinvolgono i mercati. Lo fanno facendo diventare virali prodotti dalle presunte “proprietà miracolose”, allarmando i consumatori sulla pericolosità di altri o sul loro imminente bando da parte delle autorità e, ancora, gettando ombra sugli asset o sulla storia aziendale oppure alludendo a processi produttivi non rispettosi di standard e regole di settore e per questo pericolosi per il consumatore finale, e via di questo passo. Quando si parla di fake news e aziende, insomma, più che negli altri casi, è difficile credere alla buona fede con cui possono diffondersi bufale e co. e decisamente più facile credere che si tratti di notizie manipolate ad arte per viziare la concorrenza.

fake news e aziende zara

Tra le tipologie di fake news che riguardano aziende e prodotti commerciali le più comuni annunciano sconti e promozioni speciali imperdibili: non molto tempo fa, per esempio, ne circolava una secondo cui Zara stesse cercando nuovi influencer e nuovi volti per le sue collezione e, periodicamente, diventano virali sui social i post di lenti da sole Ray-Ban iperscontate.

Effetti e costi delle fake news aziendali: qualche caso di studio

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, del resto, una fake news su un prodotto, sugli assetti proprietari di un’azienda, ecc. non ha solo effetti soft sulla brand reputation , sulla fedeltà dei consumatori a quella stessa azienda, ma può avere effetti decisamente più hard, anche su aspetti finanziari, per esempio. Lo dimostra bene il caso di Pepsi. Dopo l’elezione di Trump, nel novembre 2016, circolarono presunte dichiarazioni della CEO contro le politiche familiari del nuovo presidente americano e le sue posizioni nei confronti della comunità LGTBQ+: dichiarazioni forti, sulla base delle quali molti supporter del neo-presidente si erano detti intenzionati a non consumare più prodotti del brand e che, rivelatesi poco accurate, danno una misura del clima di disinformazione e parzialità che accompagnò quella tornata elettorale. Come mostrano i dati di Alva, comunque, proprio quelle dichiarazioni non veritiere costarono a Pepsi non solo un picco negativo nel sentiment dei consumatori nei confronti del brand e dei suoi prodotti, ma anche un contemporaneo crollo del prezzo delle azioni.

fake news e aziende pepsi sentiment

Delle dichiarazioni mai verificate della CEO di Pepsi contro l’elezione del neo-presidente Trump fecero calare a picco, nel novembre 2016, sia il sentiment dei consumatori nei confronti del brand sia il prezzo delle azioni. Fonte: Alva

fake news e aziende pepsi azioni

Altri esempi classici in materia mostrano più chiaramente i costi di fake news aziendali anche in termini organizzativi o di tempo e risorse – umane e finanziarie – da destinare al debunking o perché la smentita alla notizia falsa riesca ad arrivare a un pubblico grande almeno quanto quello che ha creduto alla bufala e per controbattere alle rivendicazioni di associazioni di settore, di tutela del consumatore, ecc. Lo sa bene Heineken, che ha dovuto attivarsi con comunicati e conferenze stampa che ribadissero che, no, il video virale dei maialini inavvertitamente schiacciati dai macchinari insieme all’orzo non riguardava i propri impianti di produzione birraia.

Più incentrata sul mercato italiano, come racconta Il Sole 24 Ore, è la campagna di comunicazione integrata con cui Latteria Soresina ha provato a fare educazione sul corretto consumo di latte e derivati in TV, via radio, sui social network per rispondere alle provocazioni, in qualche caso non scientificamente dimostrate né valide, del movimento no milk che ha spesso demonizzato una dieta comprensiva di prodotti caseari. Guardando al mercato americano, invece, e alla competizione per esempio tra brand oleari autoctoni e aziende come Bertolli amate dai consumatori perché rappresentano l’eccellenza del made in Italy, non di rado le bufale sono supportate da presunti studi scientifici, pubblicati da enti di ricerca e università anche rinomati, come quello che mette in discussione le proprietà organolettiche e nutritive dell’olio italiano. Sono casi come questi che mostrano in maniera evidente che, quando si parla di fake news e aziende, ci sono in gioco non pochi casi di vere e proprie campagne di lobbying. Non c’è niente di nuovo ed è il modo in cui, già negli anni Sessanta, studi e ricerche promossi da Kellogg’s riuscirono a convincere tutti che latte e cornflakes fossero la colazione nutrizionalmente migliore per tutta la famiglia.

Come nasce una fake news aziendale

Risalire a ritroso a come nasce una fake news aziendale, del resto, è tanto interessante quanto complicato. Secondo qualcuno c’entra quel cambio di paradigma che, con una formula un po’ abusata, ha visto i mercati diventare conversazioni: l’azienda non è più un sistema chiuso e ciò implica, tra le tante cose, che non detiene più né il monopolio, né il primato informativo. Sempre più spesso, cioè, è il cliente a crearsi un proprio percorso informativo orizzontale, non diretto dall’alto, che lo porta a valle a scegliere il prodotto dell’azienda in questione e non quello di un’altra. Lungo questo percorso molto spazio è dedicato alle fonti informali, allo scambio di informazioni tra pari e non è difficile capire, allora, perché e come notizie di dubbia provenienza, non verificate, contraddittorie abbiano possibilità di diffondersi. Nella maggior parte dei casi «le informazioni non corrette vengono sottoposte al vaglio della wisdom of the crowd», quel processo di revisione peer-to-peer che – come sottolinea in un’intervista ai nostri microfoni Diomira Cennamo, digital media advisor e co-autrice di “Professione brand reporter” – ha come risultato un ambiente informativo nel complesso sano. Non sempre, però, lo sciame intelligente riesce a riconoscere come tali fake news e notizie manipolate ad arte.

Fake news e impatto sulla reputazione aziendale | Diomira Cennamo
Fake news e impatto sulla reputazione aziendale | Diomira Cennamo

Combattere la disinformazione a danno del brand? Questione di velocità

L’azienda torna a essere protagonista, così, in prima persona quando si tratta di prevenire e rispondere alla diffusione di fake news che riguardano i suoi prodotti, il settore in cui opera, ecc. Ascoltare la Rete, utilizzare un brand monitoring tool che permetta di analizzare proattivamente tutte le conversazioni che coinvolgono il brand e il loro sentiment è un buon punto di partenza: la cattiva informazione, del resto, si previene anche mostrandosi aperti e disponibili a chiarire dubbi e perplessità dei consumatori, compito a cui può rispondere un buon community manager per esempio. Anche investire e vigilare sulla propria reputazione di brand è importante, tenendo conto – come sottolineano anche da Centromarca – che questa va intesa come uno storico e, cioè, costruita nel tempo e frutto di un processo strategico: in Rete ciò è reso più complesso da una memoria ambivalente che da un lato premia l’imminente, l’informazione più recente a disposizione su un brand, su un prodotto e, dall’altro, non concede oblio per la facilità con cui chiunque può ritrovare notizie di archivio e simili. Una serie di strumenti legali ad hoc aiutano comunque le aziende a tutelarsi prima ed eventualmente a riparare poi a fake news potenzialmente dannose per i propri asset: sono strumenti come le rettifiche, la valutazione del danno d’immagine o il più generico riconoscimento del diritto alla reputazione e all’immagine digitale dell’impresa. Quando non si riesce a fermare sul nascere una fake news è di fondamentale importanza intervenire il prima possibile: iter, mezzi e figure da mettere in campo in questo caso sono gli stessi di quando ci si ritrova a fare crisis management (come già accennato, del resto, una notizia falsa ha il potenziale per mettere in crisi reputazione, vendite, base clienti anche del brand più affermato). In una visione decisamente più collaborativa, infine, c’è chi propone che le aziende ricorrano oggi a influencer , brand ambassador, brand advocate – anche quando proprio per esempio dipendenti del brand – in virtù della credibilità di cui godono presso le community di consumatori e perché anche i tentativi di debunking non appaiano eccessivamente formali, ingessati, poco umani.

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