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Valori condivisi, sostenibilità, comprensione delle difficoltà economiche: cosa i consumatori si aspettano dalle aziende nella fase due

aziende nella fase 2 aspettative

Cosa i consumatori si aspettano dalle aziende nella fase due? La pandemia cambierà abitudini di acquisto e il rapporto con il brand.

In pieno lockdown è stato chiesto loro di mostrarsi empatiche, impegnate a diffondere notizie utili e verificate, capaci di diventare compagne di una routine casalinga tutta da ricostruire. Cosa chiedono, invece, i consumatori alle aziende nella fase due e, più in generale, di cosa vivrà il rapporto tra brand e consumatore nel post pandemia? Sono domande a cui hanno provato a rispondere numerosi studi; domande per cui non c’è risposta che non parta dalla componente incertezza.

È vero, infatti, che anche nei paesi più colpiti dall’emergenza coronavirus il livello di preoccupazione della popolazione sembra essere sceso con il passare delle settimane e via via che i Governi intraprendevano misure di contrasto del contagio e di gestione sanitaria ed economica dell’emergenza. Secondo la quarta wave del COVID-19 Barometer di Kantar, per esempio, le persone «molto preoccupate» dalla situazione erano il 79% a marzo e appena il 73% a metà maggio. Risulta che a essere aumentato, quasi di conseguenza, è un senso di adattamento alla situazione, se non di ottimismo, insieme alla percentuale di chi – almeno il 15% degli italiani, secondo il COVID-19 Impact di Initiative – vede finalmente «la luce in fondo al tunnel». È altrettanto vero, però, che c’è ancora molta incertezza su quando si potrà dire superata del tutto l’emergenza coronavirus e non si dovrà temere il riaccendersi di nuovi focolai, su come sarà il mondo post coronavirus e su come saranno cambiati, nel frattempo, interi settori produttivi o le abitudini dei consumatori.

Se i consumatori chiedono alle aziende nella fase due soprattutto di poter condividere le sfide del mondo post coronavirus

In questa prospettiva, quello che sembrano chiedere i consumatori alle aziende nella fase due è soprattutto rassicurazione. Stando ancora allo studio di Initiative, è questo un momento in cui le persone vogliono soprattutto «sentire il brand al proprio fianco», sia attraverso iniziative concrete di charity o di corporate social responsibility , sia attraverso campagne pubblicitarie che ispirino «positività, felicità, sicurezza».

Ora più che mai, brand e consumatori insieme stanno ballando con l’Apocalisse di un mondo e, soprattutto, di una nuova normalità da ricostruire. Per i primi si fa indispensabile, così, assumere un ruolo «preciso e tangibile», «al di sopra di qualunque guadagno commerciale». Il messaggio di marca , cioè, deve parlare sempre meno della marca e dei suoi prodotti – tanto più che il 41% dei consumatori inglesi, il 31% di quelli americani, il 23% di quelli italiani e il 16% di quelli inglesi vedrebbe negativamente i tentativi delle aziende di inserirsi a tutti i costi e con messaggi inappropriati nelle conversazioni del momento – e sempre più delle sfide che devono affrontare insieme consumatori e aziende nella fase due.

Dalle aspettative dei consumatori a come avverranno le decisioni d’acquisto nel post coronavirus

Con le preoccupazioni dei più che, da collettive che erano nei primi giorni dell’emergenza, si sono fatte sempre più personali, anche le aspettative nei confronti dei brand sono progressivamente cambiate in questi mesi. Secondo la Coronavirus Research Maggio 2020 di The Fool e GWI, per esempio, quello che i consumatori chiedono di più alle aziende nella fase due è concretezza e, più nello specifico, comprensione delle difficoltà economiche seguite allo stop alle attività produttive imposto in molti paesi dalle misure anti-contagio. La maggior parte degli intervistati si dice d’accordo, infatti, e continua ad apprezzare lo sforzo dei brand nel fornire informazioni pratiche e consigli utili per affrontare l’emergenza coronavirus (lo fa l’82% del campione a maggio 2020, contro l’88% di aprile 2020), nel mostrare attraverso campagne pubblicitarie ad hoc le azioni intraprese per contrastare l’emergenza e aiutare i propri clienti (74% a maggio 2020 contro l’81% di aprile 2020) o persino nel contattare direttamente i consumatori per informarli su quest’ultime (65% a maggio 2020, 70% ad aprile 2020). Più delle settimane precedenti, però, con l’allentamento delle misure di lockdown e alle prese con gli effetti a medio e lungo termine della pandemia, si cominciano ad apprezzare anche le promozioni e le offerte dedicate ai clienti (lo fa l’86% del campione The Fool/GWI), le condizioni di pagamento flessibili (83%), i brand impegnati in donazioni di denaro o di provviste a chi più ne necessita (82%) e le aziende che offrono i propri prodotti a prezzi più bassi (80%).

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Com’è cambiato, nelle diverse settimane di lockdown, quello che i consumatori si aspettano dai brand e cosa i clienti apprezzeranno di più delle aziende nella fase due. Fonte: The Fool/GWI

Anche dal punto di vista della comunicazione di brand, alla progressiva ricerca di una nuova normalità si associa un maggiore gradimento per le aziende capaci di fornire contenuti divertenti, spensierati e di intrattenimento (graditi da almeno il 74% del campione) e per le campagne pubblicitarie che non facciano riferimento al coronavirus (tornano ad apprezzarle, a livello globale, un consumatore su due e in Italia almeno il 63% degli intervistati). Sforzandosi di prevedere quali saranno i trend di consumo post coronavirus e come avverranno le decisioni di acquisto nell’immediato futuro, driver fondamentali sembrano essere la capacità dei brand di rispondere ai bisogni dei consumatori (per il 48% del campione) e il prezzo dei prodotti (in media per il 42% del campione, con i consumatori senior che, contrariamente a quanto avveniva nel mondo prima del coronavirus, si dimostrano più attenti alle spese dei consumatori più giovani) e, solo in secondo luogo, l’aver aiutato la comunità durante la pandemia (per un consumatore su quattro) e l’aver fornito supporto alle persone (per circa il 29% dei consumatori, soprattutto tra gli high spender).

decisioni d'acquisto nel post-coronavirus

Sulla base di cosa i consumatori preferiranno un brand all’altro nella fase due e nel post coronavirus. Fonte: The Fool/GWI

Più condivisione dei valori e acquisti più consapevoli, anche e soprattutto da un punto di vista economico, sembrano insomma imprescindibili quanto al rapporto consumatori e aziende nella fase due.

I consumi dopo il coronavirus? Tornano a essere locali (e indipendenti)

C’è almeno un altro trend emergente, però, secondo Kantar: se i consumatori con più disponibilità di spesa sembrano intenzionati a comprare più indipendente e da piccole aziende (lo farà, ancora secondo The Fool e GWI, almeno un consumatore ad alto reddito su quattro), più generalizzato e universale è l’interesse vero aziende e produttori locali. Il 42% dei consumatori, infatti, farebbe ora più attenzione all’origine dei prodotti, percentuale che cresce di almeno il 20% tra le famiglie con bambini, e il 65% sarebbe più propenso ad acquistarne di realizzati nel proprio paese. È una tendenza, questa del ritorno al locale, valida universalmente ma con qualche paese – come la Cina, la Corea del Sud e la Spagna dove la percentuale di consumatori interessati a comprare locale cresce rispettivamente all’87%, 76% e 73% – un po’ a sorpresa in cima alla classifica e grandi conferme, invece, come l’Italia: qui i consumatori che dicono di voler ritornare a comprare locale sono almeno l’81%, forse anche perché preoccupati di rivalorizzare il made in Italy . Per i consumatori già normalmente attenti o attivisti per i temi della sostenibilità, la necessità di comprare locale dopo la pandemia da coronavirus si fa sentire ancora più forte: in questo cluster la percentuale cresce ad almeno il 72%. Per gli altri un ruolo fondamentale nell’intenzione di consumare locale possono averlo svolto da un lato la paura che l’economia del proprio paese si fermi e, dall’altro, quella del contagio: un consumatore su quattro nel campione Kantar è convinto, infatti, che le aziende dovrebbero riportare la produzione nel proprio paese di riferimento e rispettivamente il 60% del campione e il 47% temono di acquistare prodotti cinesi o americani perché li percepiscono come «a rischio». Come a dire, insomma, che le aziende nella fase 2 dovranno fare i conti anche e soprattutto con i danni reputazionali da coronavirus .

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