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Il virtual influencer di KFC? È l'ultimo arrivato in un mondo di influencer robot e android

Virtual influencer: chi sono e gli esempi

KFC non è il solo brand a coinvolgere dei virtual influencer nella propria strategia. Perché (e come) funzionano però questi influencer?

Vola in prima classe, ha sempre pronta una citazione o una frase motivazionale con cui rivolgersi ai suoi follower, si fa fotografare in cucina, alle prese con la beauty routine o mentre incontra altri influencer come lui. Il colonnello Sanders, storico volto di KFC, non solo ha ripreso vita, ma sembra essersi impossessato dei social aziendali in un take over che mostra chiaramente come tra i più recenti trend per l’influencer marketing non si possa più ignorare il ricorso ai virtual influencer .

Da volto del brand a virtual influencer: torna il colonnello Sanders di KFC

Di veramente nuovo l’operazione di KFC ha l’aver creato, ex novo, un influencer virtuale e non aver fatto ricorso a una delle tante cyber celebrità che pure esistono e hanno all’attivo numerose collaborazioni con aziende, anche famose. In questa prospettiva, il colonnello Sanders e il live-streaming delle sue giornate possono sembrare più un contenuto di brand che non un’operazione di influencer marketing. In un futuro imminente, però, da semplice testimonial social del fast food di pollo fritto Sanders potrebbe diventare un influencer a tutti gli effetti collaborando con altri brand e per la promozione di prodotti diversi da quelli del menu KFC; è, almeno in parte, quello che sta già succedendo grazie alle partnership aziendali.

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Virtual influencer: tra pro e contro

Quello che il colonnello Sanders ha già in comune con gli altri virtual influencer – o, meglio, con quelli che Wired indica con più precisione come computer-generated intelligence influencer – comunque è la ragione per cui è nato. I casi di insuccesso dell’influencer marketing, i dubbi rispetto ai cosiddetti fake influencer e a pratiche scorrette come l’acquisto massivo di follower o l’utilizzo di metriche scientificamente valide da parte degli influencer, infatti, frenano ancora gli investimenti nel campo e, per semplificare, rendono i brand guardinghi rispetto alle collaborazioni con piccole e grandi star del web. È vero che accordi e contratti preliminari tutelano il brand e delimitano il campo d’azione degli influencer ma, soprattutto se non si è prestata abbastanza attenzione alla scelta dell’influencer migliore o se non si monitora in itinere la campagna, si rischiano più danni che benefici dal ricorso all’ influencer marketing . Si pensi alle polemiche e alle querelle che spesso coinvolgono gli influencer o alla questione della trasparenza e della violazione, da parte di quest’ultimi, di codici di comportamento e di autoregolamentazione del settore, come quelli che prevedono per esempio di segnalare esplicitamente i post #sponsored o frutto di una collaborazione aziendale. In non pochi casi concreti si sono posti, poi, questioni etiche: fatto salvo che la radice del problema è quasi sempre uno spazio grigio legislativo, è giusto per esempio che un influencer dia visibilità a prodotti (integratori alimentari, prodotti dimagranti, ecc.) o servizi (per il gioco o le scommesse, per esempio) potenzialmente rischiosi per i consumatori? C’è, insomma, di mezzo una questione di brand safety e, in questo senso, i virtual influencer dovrebbero assicurare un maggior controllo all’azienda e un minor rischio di incappare in crisi reputazionali. A patto certo di non dimenticare che, figli dell’intelligenza artificiale applicata all’influencer marketing e nella maggior parte dei casi in grado di postare e interagire sui social e con le proprie community grazie a machine learning e sintetizzatori vocali, gli influencer virtuali vanno programmati ed educati bene perché aiutino davvero l’azienda nelle sue strategie di marketing.

I più scettici fanno notare che i virtual influencer non assicurano solo vantaggi per le aziende che vi ricorrano. Ci sono, infatti, tante possibili insidie e nella maggior parte dei casi queste hanno a che vedere con la credibilità dell’influencer che, a guardarlo bene, è uno dei principali fattori ricollegati alla (buona) riuscita di una campagna di influencer marketing. Pur semplificando molto, infatti, il marketing dell’influenza si basa soprattutto su quanto credibile è il messaggio dell’influencer e su quanto quest’ultimo sia considerato, più in generale, degno di fiducia dalla sua community. Si porrebbero, allora, due livelli di problemi. Come si può credere a un influencer virtuale che raccomanda un prodotto o servizio ma, per forza di cose, senza averlo provato in precedenza? E, allo stesso modo, come ci si riesce ad affezionare a questo, tanto da continuare a seguirlo e considerarlo una buona fonte d’ispirazione? C’è una componente di immedesimazione, di somiglianza di gusti e abitudini e persino di empatia, quando non di aspirazione, tra le ragioni per cui ci si fida di – e, almeno quando si tratta di scelte di consumo, ci si affida a – un influencer in carne e ossa. Più difficile è immaginare che – ed eventualmente come – questo possa avvenire con influencer virtuali, che sono ancora tra l’altro anche visivamente artificiali e dichiaratamente frutto di rendering. Anche se non mancano ricerche condotte su un campione inglese secondo cui più di un utente su due si fiderebbe in qualche modo di entità virtuali come i cyberinfluencer e la percentuale cresce a oltre il 60% se questi utenti sono tra la fetta di popolazione più tech-savy. Tra le criticità di una strategia di virtual influencer marketing non si possono ignorare, comunque, alcune questioni legali: nel quadro di una necessità, avvertita da tutti i player, di regolare meglio l’intera materia dell’influencer marketing, una delle domande che sorgono più spontanee è a chi possa essere attribuita la responsabilità nel caso in cui questi influencer dall’intelligenza artificiale violino, laddove esistano, regole e codici di autoregolamentazione? La questione è complessa tanto più che, fatte salve eccezioni come quelle di KFC, non è sempre così semplice risalire ai soggetti (agenzie di comunicazione, marketer, ecc.) che gestiscono la vita dei virtual influencer.

virtual influencer marketing: esempi e strategie

Nonostante questo e con ogni probabilità in virtù dei suoi vantaggi — tra cui una maggiore economicità, tra l’altro — il virtual influencer marketing è un campo di sperimentazione oggi molto praticato. Dalle firm di moda, per esempio, del resto abituate a sfruttare le novità provenienti dal mondo del digitale.

Gucci è stato tra i primi a coinvolgere Erica, il primo androide creato dall’Università di Osaka e dotato di ventiquattro sensori che gli permettono di avere interazioni umane (o quasi), in una campagna di influencer marketing interamente giocata su WeChat e dedicata al mercato cinese. Erica ha indossato outfit e accessori del brand ed è stata al centro di una strategia editoriale pensata appositamente per il servizio di messaggistica istantanea e, soprattutto, per un pubblico come quello cinese. Il fattore territoriale del resto è rilevante e in maniera non trascurabile: se è soprattutto su un mercato come quello cinese che i virtual influencer hanno successo, infatti, è con ogni probabilità perché la dinamica degli investimenti pubblicitari è diversa — con meno spazio dato, per esempio, all’investimento in sponsorizzate e display advertising — e diversa è anche la ricettività del pubblico, che sarebbe meno infastidito, ancora, dai post sponsorizzati degli influencer.

virtual influencer esempio gucci erica

Erica, il primo androide con fattezze e abilità umane (o quasi), è stata coinvolta da Gucci in una campagna di virtual influencer marketing dedicata al mercato cinese.

Erica comunque è in buona compagnia di Lil Miquela — forse la più anziana tra gli influencer virtuali, nata nel 2016 e oggi seguita da oltre un milione e mezzo di utenti solo su Instagram — Shudu — che nella biografia di Instagram dice di essere la prima top model digitale, e salita sul palco dei BFTA verrebbe da aggiungere — Noonoouri, Bermuda e via di questo passo. Come tra gli influencer in carne e ossa è tempo di micro influencer e nano influencer, poi, anche tra i virtual influencer c’è chi come Dagny ha una community limitata nelle dimensioni ma non per questo meno attiva e meno coinvolta.

 

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target =”_blank” rel=”noopener”>Here’s a belated but #LiterallyPerfect St. Pat’s look for you. (I had to incorporate my favorite color, too, of course. 🎀) What’s YOUR favorite color, Triangles? 🌈

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L’aspetto forse più curioso e che accomuna tutti gli influencer virtuali è che generano engagement nonostante bio e, come già si accennava, aspetto dichiaratamente non umani. Se numerosi brand, da Prada a Diesel e Moncler per restare nell’ambito del fashion, e persino soggetti no profit come Unicef hanno investito — come è lecito pensare, cifre consistenti — per collaborare con influencer virtuali non deve essere insomma la natura non umana la discriminante principale per il successo di un influencer. Tanto più che per consumatori giovanissimi come quelli della Gen Z sono le stesse dinamiche di acquisto, fiduciarie, di affiliazione al brand a essere cambiate e tra i valori percepiti come più importanti, che il brand dimostra, quello davvero discriminante è la consistenza.

 

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Been up since 6! A! M! working on a lil treat for y’all. Hope you like it. More info 🔜. 💘

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Anche l’industria dei contenuti per adulti scopre l’influencer marketing (virtuale)

Decisamente più simile all’operazione di KFC con il colonnello Sanders è, infine, quella di YouP0rn. Il sito di video per adulti ha di recente creato, infatti, Jedy Vales, la prima influencer virtuale nel mondo del porno. Ha profili già attivi su Twitter e Instagram e un seguito cresciuto in pochi giorni fino a quasi 20mila follower (a maggio 2019). L’obiettivo dichiarato però è toccare almeno il milione, come rivela AdWeek, e quando sarà raggiunto Jedy potrebbe diventare la protagonista di un videogame a tema. Per il momento si limita a essere «ambasciatrice» della piattaforma, a dialogare con i fan e a provare in tutti i modi a coinvolgere la community.

A Jedy, del resto, tocca un compito decisamente più arduo di quello degli altri virtual influencer: creare contenuti che siano, allo stesso tempo, rappresentativi di mission e valori aziendali di YouP0rn e rispettosi degli standard di comunità e le linee guida delle singole piattaforme spesso intransigenti quando si tratta di contenuti espliciti. Fare content marketing senza essere penalizzati o bannati, in altre parole, è stato difficile fin qui per le piattaforme di contenuti per adulti: il ricorso a virtual influencer che ne raccontino il mondo in maniera ludica e giocosa o facendo riferimento a esperienze delle più quotidiane, così, potrebbe essere un’opportunità per raggiungere pubblici nuovi e meno di nicchia. E, perché no, per normalizzare – e forse rendere persino meno orientata da un punto di vista del genere – l’immagine dell’industria del porno.

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